Sei personaggi in cerca d’autore

È da quasi un secolo, per la precisione dal 1921, che sei personaggi si presentano sul palcoscenico di un teatro mentre una compagnia d’attori sta provando uno spettacolo, chiedendo alla troupe di mettere in scena la loro drammatica vicenda, che il loro autore aveva ideato ma non aveva avuto forza o volontà di scrivere, lasciandoli in un limbo, né vivi né morti. Dopo il colossale fiasco della prima rappresentazione, “Sei personaggi in cerca d’autore”, revisionato dall’autore, dal 1925 ha incontrato sempre il successo del pubblico e della critica, rappresentando il più famoso fra i drammi che Pirandello ha dedicato al metateatro (al teatro, cioè, che parla di se stesso). L’effetto straniante, che colpì in modo straordinario gli spettatori dell’epoca, fu dato dalla rottura della “quarta parete”, la simbolica divisione fra palcoscenico e platea. In questo spettacolo gli spettatori entravano a sipario aperto, osservavano i tecnici del teatro lavorare, gli atti si interrompevano senza che il sipario si abbassasse, e gli attori entravano e uscivano anche dalla platea. Insomma, tutte le regole abituali del teatro borghese venivano bellamente infrante. Pirandello non ha certo inventato il concetto di “teatro nel teatro”: dalla commedia antica passando per il teatro barocco, sono tantissimi gli spettacoli che mettono in scena degli allestimenti teatrali. La novità sta nel fatto che, mentre nella maggior parte dei casi, questo stratagemma aveva finalità comiche o satiriche, nel caso di Pirandello lo spettacolo che riflette su se stesso serve per affrontare il tema di fondo dell’intera produzione del drammaturgo siciliano, ovvero l’identità umana. Nei “Sei personaggi” la storia che i personaggi vorrebbero raccontare è, né più né meno, una banale storia da romanzo verista. Un marito che abbandona la moglie fedifraga, la moglie col nuovo marito che s’allontana, i figli che nascono dal secondo matrimonio, la rovina economica della famiglia, la figlia che sceglie di prostituirsi per pagare i debiti della madre, il primo marito che, non sapendo che i suoi cari sono tornati a vivere nella sua città, sta per consumare il rapporto sessuale con la figliastra, prontamente interrotto dalla moglie, una figlia che muore affogata, un figlio che si suicida… Pirandello, volutamente, ha inserito tutto il repertorio più vieto del drammone borghese, svuotandolo dall’interno, perché la vicenda ci viene raccontata e agita sul palcoscenico dai personaggi stessi, che mostrano il dramma esistenziale delle loro vite. Quando la compagnia cerca di ricreare la vicenda, l’esito è catastrofico, perché quello che era tragico diventa comico: l’arte non è in grado di replicare la vita, e alla fine gli attori se ne vanno, scocciati per aver perso una giornata di lavoro, e i sei personaggi se ne vanno, fantasmi insoddisfatti, alla ricerca di un altro palcoscenico.

“Sei personaggi in cerca d’autore” è lo spettacolo che ha aperto la stagione di prosa 2018-2019 del Teatro “Bonci” di Cesena, nella produzione del Teatro stabile di Catania, per la regia e l’interpretazione di Michele Placido. Il cast è di notevole qualità, affiatato ed efficace (da segnalare, oltre a Michele Placido, che interpreta il padre, la madre, di Guia Jelo, e la figliastra, di Dajana Roncione), e merita tutti gli applausi che il numeroso pubblico (ci riferiamo alla serata di giovedì primo novembre) ha tributato loro. Quella che lascia un po’ più perplessi è la scelta registica: i tre drammi del metateatro di Pirandello vivono sempre di un confronto con il presente, c’è una parte in essi di teatro all’improvviso, e non potrebbe andare diversamente, perché lo spettacolo deve dare l’impressione allo spettatore di assistere a qualcosa di reale, non di fittizio. Nel caso dei “Sei personaggi”, addirittura Pirandello avrebbe voluto che sui manifesti si annunziasse “Il giuoco delle parti”, che è il dramma che gli attori preparano prima dell’arrivo dei personaggi, per acuire il senso di straniamento del pubblico. Andare a teatro per vedere “Sei personaggi in cerca d’autore” era proprio ciò che l’autore avrebbe voluto evitare. A maggior ragione avrebbe voluto che il sipario fosse stato aperto, all’arrivo del pubblico, per sottolineare la rottura delle regole. In questo allestimento il sipario è regolarmente chiuso, si apre dopo gli squilli che avvertono il gentile pubblico che lo spettacolo sta per iniziare, si ascolta una soffusa musica moderna, intravvediamo i sei personaggi, poi entrano gli attori che stanno preparando un dramma ispirato alla vita quotidiana, un dramma di denuncia, in cui si parla, fra le altre cose, di femminicidio eccetera. Questa parte dell’operazione poteva essere gestita meglio, soprattutto perché nella scelta originale di Pirandello si aveva il contrasto fra il dramma borghese che la compagnia provava e il dramma vero dei personaggi. In questo modo, invece, fin dall’inizio abbiamo un dramma ispirato alla vita vera, sicché non si comprende perché il dramma dei personaggi, che viene sempre presentato come veritiero, dovrebbe interessare regista e attori. Inoltre, è sempre un punto fondamentale l’ingresso dei personaggi: Pirandello nelle didascalie del dramma precisa minuziosamente che essi non devono essere scambiati con gli attori, perché non sono neanche del tutto esseri umani: sono idee solo parzialmente incarnate, che vivono e soffrono, ma in modo larvale, perché il loro creatore non ha dato loro una vita completa ed essi, vampirescamente, vorrebbero che il palcoscenico gliela desse, che gliela dessero gli attori, loro sì, vivi e completi, per quanto guitti e incompetenti. L’ingresso dei personaggi, invece, in questa versione, è piuttosto deludente, privo di quella straordinarietà che avrebbe dovuto avere. L’uso delle musiche di scena, poi, spezza quell’illusione di realismo che Pirandello voleva, rendendo il tutto uno spettacolo gradevole, piacevole, ben recitato, ma uno spettacolo tradizionale. Esattamente l’opposto di quello che i “Sei personaggi” sono, cioè una delle opere più rivoluzionarie del teatro del XX secolo, ed è un peccato. Buona, invece, l’idea di trasformare l’opera in un atto unico: in questo modo la tensione narrativa non si spezza e il pubblico moderno, i cui gusti (e la cui capacità di attenzione) sono cambiati, apprezza.

Al termine dello spettacolo, dopo i tantissimi applausi (teatro pieno), Michele Placido ha brevemente commemorato il grande attore napoletano Carlo Giuffrè, scomparso proprio lo stesso giorno, ricordando il suo affetto per il Teatro “Bonci” e declamando una poesia napoletana dedicata al mondo del teatro.

La compagnia incontrerà il pubblico sabato tre novembre, nel foyer del “Bonci”, alle ore 18. Ingresso libero.