“Il senso della vita di Emma”, in scena al ‘Bonci’ fino a domenica 4 febbraio

Fausto Paravidino dagli anni Novanta è un volto del teatro (e del cinema) italiano: ha scritto alcuni fra i testi più innovativi a cavallo fra XX e XXI secolo, unendo la drammaturgia brechtiana (lo straniamento dell’attore, la recitazione epica, la consapevolezza politica) ad alcune tipicità italiane, prima fra tutte la capacità di ironizzare su tutto e tutti. Era molta la curiosità, quindi, per il suo dramma Il senso della vita di Emma, che dal Teatro stabile di Bolzano è in tournée (unica data romagnola, quella di Cesena). La curiosità è data innanzi tutto dalla durata del testo: oltre tre ore, il doppio della durata dei precedenti spettacoli di Paravidino, e il fatto che l’opera venisse presentata come un affresco di quattro decenni di vita italiana, dagli anni Settanta ad oggi. Una storia privata che diventa storia nazionale, dunque? Purtroppo, solo in parte. È vero che nella ricerca della misteriosa Emma, la ragazza scomparsa che due famiglie ha addolorato con la sua sparizione, si parla anche dell’Italia dagli anni Settanta ad oggi, è vero che i riferimenti al periodo degli anni di piombo ci sono tutti, che le battute sull’Italia di Fanfani prima e di Berlusconi poi non mancano, che c’è la citazione dei vegetariani e dei vegani, che si assiste alla trasformazione della società attraverso il microcosmo di due famiglie, ma quella frattura fra il mondo privato di Emma, bambina che tarda a parlare (e che quando finalmente si decide a comunicare col mondo lo fa riversandogli addosso tutte le brutture che nessuno vorrebbe sentirsi dire), rimane netta.

Vorremmo che le vicende di Emma ci riguardassero, prendessero il colpo d’ala tale da renderle uno spaccato anche della nostra vita, e in qualche momento ci si avvicina a questo magico momento, ma in generale la vicenda di Emma (prima attivista animalista, poi impiegata di una multinazionale senza scrupoli) e la “nostra” vicenda di italiani proseguono per cammini paralleli, senza entrare davvero in contatto. A livello di scrittura drammaturgica Paravidino (anche in scena, oltre che regista: davvero poliedrico) continua a mostrare la sua qualità, ma c’è uno scarto notevole fra il primo e il secondo tempo del dramma. Nel primo, l’autore riesce a fare interagire i personaggi del passato con quelli di oggi, servendosi di una scrittura sincopata, limpida, efficace; c’è ampio spazio per l’ironia e la comicità, ma i momenti di riflessione arrivano al segno e colpiscono, anche duramente. È semplicemente geniale l’idea di usare in questa prima parte una bambola snodata per dare forma a Emma, che così non appare sul palcoscenico, inafferrabile fantasma, intangibile nel suo essere ricordo incompiuto.

La seconda parte dello spettacolo vede spegnersi tanta efficacia, i dialoghi fra i “fantasmi” e i personaggi del presente sono più faticosi, anche da seguire per lo spettatore, che si deve destreggiare e lo fa con fatica. La chiusura, poi, è purtroppo un vero anticlimax: incontriamo finalmente Emma, e questo personaggio che tante aspettative aveva suscitato si mostra un po’ deludente, non tanto per la sua banalità, in quanto questa potrebbe essere benissimo una scelta artistica interessante e valida, per quanto non molto originale, ma per come viene scritto. Purtroppo proprio in questa parte la scrittura tende a girare a vuoto, i luoghi comuni anche a livello lessicale aumentano, e si avverte sempre più lo scollamento fra la vicenda privata e la volontà di tratteggiare un ritratto d’Italia. Con un solo punto forte: quando Emma si ribella a suo padre, che rivendica il suo impegno in politica negli anni Settanta, accusando lui e la sua generazione di aver massacrato proprio l’idea della politica, in un velleitarismo che ha solo reso possibile il trionfo finale di un capitalismo senza più nemici. Ecco, in quel punto la connessione fra la storia personale e quella generale c’è stata, unitamente a un testo scritto in modo egregio e recitato benissimo. È stato, però, solo un momento.

Discorso a parte va fatto per il cast degli attori, tutti molto bravi e impegnati. Peccato che molte delle battute fossero del tutto incomprensibili, sia perché in vari momenti del dramma i personaggi usano delle maschere, sia perché la musica in più di un’occasione ha sovrastato l’emissione vocale degli interpreti. Il “Bonci” è un teatro grande, e benché aiutato da un’ottima acustica, ha comunque bisogno di un po’ di voce in più, e più nitida, di quel che s’è potuto sentire. Alla prima serata di giovedì, pubblico non molto numeroso, ma entusiasta, con ripetute acclamazioni alla troupe. La compagnia incontrerà il pubblico domani, sabato 3 febbraio, alle 17,30.