Un mese di solidarietà in Costa d’Avorio. E già pensano al prossimo viaggio

Il cuore messo a dura prova, ma la voglia di tornare è forte per dare speranza ai bambini orfani e ai malati in una terra poverissima. È ad Ayamé, in Costa d’Avorio (Africa occidentale) che i cesenati Chiara Alessandrini, 24enne infermiera, e Alfredo Squeo, 29enne educatore sociale, hanno prestato volontariato nel locale orfanotrofio e nell’ospedale rudimentale con la Ong “Agenzia n. 1” di Pavia. Sono partiti a fine gennaio e tornati i primi di marzo, lasciando nel paese africano 150 chili di valigie colme di vestiti, giochi e materiali per la scuola, oltre a una donazione di 10mila euro, frutto della raccolta fondi lanciata per l’occasione.

«È stata un’esperienza indescrivibile, la più bella della mia vita anche se molto difficile. Non vedo l’ora di rifarla: ci stiamo organizzando per tornare il prossimo inverno e portare anche materiale sanitario di cui c’è molta necessità — racconta Chiara, che ha conseguito la laurea magistrale lo scorso anno all’Università di Ferrara e lavora al Bufalini —. Ayamé è un villaggio molto povero di 11mila abitanti. I residenti vivono in capanne senza luce, a volte senza acqua, e le strade sono quasi tutte sterrate. I bambini poveri vivono in condizioni terribili: mangiano foglie e bevono acqua dalle pozzanghere per sopravvivere».

Le giornate di Chiara, che ha lasciato passare un po’ di tempo prima di raccontare la sua esperienza per metabolizzare le emozioni vissute, erano divise tra l’ospedale e l’orfanotrofio (in quest’ultimo invece Alfredo prestava servizio fisso). «La struttura, gestita da un’italiana, accoglie una cinquantina di minori, di cui alcuni disabili, la fascia di età più numerosa è tra i due e i tre anni — prosegue —. Sono quasi tutti orfani di madre, spesso morta durante il parto, solo qualcuno di loro è abbandonato. A livello legale però è molto complesso avviare le adozioni, in quanto i bambini hanno altri familiari, nonni e zii, con cui di solito si ricongiungono verso i sette anni. Ma da loro spesso vengono mandati a lavorare».

L’obiettivo primario della Ong che gestisce l’orfanotrofio è dare a questi bambini un’istruzione. «Organizzavamo attività ludiche, giochi, passeggiate: cose che per noi sono banali come colori e carta per disegnare, danno loro tanta felicità. Lì abbiamo lasciato il nostro cuore e tuttora ci teniamo in contatto con le operatrici e i bambini per ricevere aggiornamenti», afferma.

Molto grave è poi la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria alla popolazione. «La tendenza è quella di curarsi in casa, così i malati arrivano in ospedale quando spesso le condizioni sono ormai molto gravi — aggiunge Alessandrini —. Lì manca la cultura dell’urgenza e di far di tutto per salvare la vita di un paziente, a volte non si dà dignità a chi muore. I medici locali sono pochi, non hanno competenze specifiche e hanno poco e niente: ho lavorato per un mese senza guanti e utilizzato la stessa siringa per più persone. I parti avvengono in casa, in condizioni igieniche spaventose, per questo il tasso di mortalità è così alto».