Il cesenate Giancarlo Domenichini venerdì 20 maggio sarà alla Fiera del libro di Torino

Giancarlo Domenichini è un uomo di lettere. Docente di Italiano per oltre due decenni all’istituto per Geometri, ha chiuso la sua carriera scolastica con diversi anni da dirigente al liceo “Monti”, dove al Classico lui stesso avevo studiato. Sposato, due figli e una nipote, come si legge nella quarta di copertina del volume per i tipi della Nolica edizioni, una passione per la cucina, ha esordito a 70 anni come autore. Una storia, quella di Africo, cui pensava da molto tempo e che ora è finita nero su bianco, nel suo primo romanzo “Le circostanze avverse”.

Domenichini venerdì della prossima settimana, il 20 maggio, presenterà il suo libro alla Fiera del libro di Torino. Alla vigilia di questo importante sua prima come autore, gli abbiamo posto alcune domande.

Professore, il titolo “Le circostanze avverse” appare inusuale, anche un po’ criptico. Come mai questa scelta?

Un titolo difficilmente riesce a spiegare tutto l’universo delle situazioni presenti in un romanzo e di rado può anticipare le vicende dei personaggi e svelare per intero il messaggio contenuto nelle sue pagine. La scelta, condivisa con l’editore, è partita dalla convinzione che quelle tre parole fossero in grado di riassumere il tema di fondo, che riuscissero a esprimere con sufficiente chiarezza gli aspetti essenziali della storia del protagonista, un uomo comune che nel corso della sua vita, che si snoda in un periodo che va dal passaggio del fronte per giungere fino alla metà degli anni ’80, è stato particolarmente colpito da vicende dolorose. Da molti anni, riflettendo sulla mia vita e su tanti episodi accaduti a me o a persone a me vicine, sentivo la necessità di mettere a fuoco l’argomento. Una riflessione che è maturata nel tempo fino ad assumere la forma di un lavoro letterario. Poi è bene che il titolo susciti curiosità e interesse. Le motivazioni della scelta diventano poi evidenti con la lettura del romanzo.

Cerchiamo di svelare qualche segreto, se possibile. Quanto delle vicende narrate nascondono aspetti autobiografici e quanto sono frutto di fantasia?

Tanti mi chiedono, appena vengono a sapere che ho scritto un libro, se ho raccontato la mia vita. Non ho la presunzione di ritenere che le mie vicende possano essere così interessanti per gli altri ma nel contempo rivendico per me la capacità di raccontare storie che abbiano una dignità tale da essere pubblicate. Pur calata in un contesto storico rigorosamente ricostruito fin nei minimi dettagli – il nome del direttore del Lugaresi, le date dell’avvio di certi corsi professionali e persino quella del concerto dei Pooh a Castrocaro, alcune vicende legate alla scuola Agraria di Cesena, sono solo alcuni esempi – la storia centrale, cioè la vicenda di Africo, è totalmente frutto della mia fantasia, ferma restando la possibilità, del tutto casuale, che a qualcuno siano accadute vicende simili. Avevo la necessità di creare intorno a questo personaggio comune, un bidello di scuola, una serie di fatti che giustificassero il sorgere in lui delle domande fondamentali sul senso e sul valore della nostra esistenza. Poi è inevitabile che alcuni particolari o le caratteristiche di qualche personaggio richiamino fatti e individui che ho incontrato nella mia vita. Credo che Flaubert intendesse proprio questo quando affermava: “Madame Bovary c’est moi.”

Il libro si legge con molto piacere, anche se il finale non è come quello che molti si attenderebbero. Qual è il messaggio forte che voleva dare?

Mi fa piacere che il finale risulti inatteso, penso ti riferisca al ruolo e al nome del narratore che compare qua e là tra le vicende riferite a Africo. Credo che la sorpresa finale conduca ancora di più verso il messaggio sotteso. A tutti noi è accaduto di attraversare circostanze avverse. Sono momenti duri, dolorosi e di grande sofferenza che nessuno si augura mai di attraversare. E tuttavia sono occasioni nelle quali la nostra ragione diventa più acuta e si avvicina, se usata non in modo riduttivo, cioè meramente razionalistico, a intuire il vero senso dell’esistenza. Quando la nostra ragione si apre alla possibilità, scorge intorno segni, situazioni o persone che possono indicare la traccia di un percorso, che possono spingere a verificare una strada diversa da quella che siamo soliti seguire. Certo, sono solo dei segni, delle tracce: Dio non ci convince con effetti speciali ma sollecita la nostra libertà perché possa riuscire a riconoscere i miracoli che Lui opera.

La famiglia fa da sfondo all’intero romanzo. Anche il rapporto tra coniugi e quello genitori-figli, con la presenza non da poco di una nonna. È una storia che ha da insegnare anche alle nostre famiglie di oggi?

Me lo auguro. Non so se quello che ho scritto potrà risultare utile a qualcuno, in particolare alle nostre famiglie. Africo non ha mai conosciuto il padre, morto durante la guerra in Etiopia: ogni volta che qualcuno si rivolge a lui chiamandolo per nome è come se gli cadesse di nuovo addosso la sua orfanità. È questa la prima delle sue disgrazie, quella di non avere avuto un punto di riferimento, una figura in grado di accompagnarlo e guidarlo. Questo ruolo se lo sobbarcano la nonna e la mamma, in modo più che dignitoso, insegnandogli un criterio preciso di interpretazione della realtà attraverso l’educazione cristiana. Questo criterio, che a un certo punto abbandonerà, in seguito si affaccerà di nuovo provocandolo a una riflessione fondamentale, forse proprio quando un Padre finirà per incontrarlo. Per questo le nostre famiglie, vivendo una fede quotidiana, svolgono un ruolo fondamentale nella crescita dei più piccoli, consentono loro di avere anche negli anni della loro maturità, un criterio verificabile di interpretazione del reale.

Sullo sfondo c’è anche una vicenda di fede, con la figura di un sacerdote. L’uomo è sempre alla ricerca della propria felicità?

Se l’uomo così non facesse, la sua vita sarebbe ben misera cosa. Misera come quella di Luciano, l’amico degli anni giovanili, convinto che la felicità non esista e che niente nella vita abbia senso, a parte la soddisfazione istintiva dei bisogni immediati. Come don Baronio, che il protagonista incontra in un rifugio durante i bombardamenti su Cesena, anche la figura dell’insegnante di religione della scuola dove Africo lavora rappresenta una di quelle tracce di cui si diceva poco sopra, una di quelle figure che le circostanze, in questo caso non avverse, ci fanno conoscere. La sua testimonianza spingerà sia Africo sia il narratore a cercarlo per ricavarne una risposta. Una risposta fatta non di parole o di un ideale astratto per quanto elevato, ma di esperienza: altrimenti la risposta servirebbe a poco.

E, in conclusione, della figura del narratore che ci dice?

È stata pensata perché, intervenendo questo personaggio in prima persona all’interno della narrazione, facesse comprendere a ogni lettore che nel romanzo non è importante soltanto la vicenda umana raccontata e lo sollecitasse a sentirsi partecipe di una ricerca sincera, tanto da poterne condividere il senso e lo scopo.