Il primario della Terapia intensiva, Agnoletti: sul Covid “siamo chiamati ad arrivare fino in fondo. Non siamo né eroi né persone da disprezzare”

“Questo sistema sanitario è perfetto? No. Si può fare di più? Sì, da qui in avanti. Adesso sono chiamato ad arrivare in fondo. Dobbiamo vincere questo campionato. Dopo, alla fine della guerra (a me non piace chiamarla guerra), ci sediamo un attimo e ci diciamo quello che avremmo dovuto fare ed andrebbe fatto”.

È un piacere ascoltare nel suo studio il dottor Vanni Agnoletti (nella foto), primario del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale “Maurizio Bufalini”. È lui che guida la Terapia intensiva, per intenderci, dei malati Covid, settore sporco, e dei non Covid, settore pulito. Classe 1970, è forlivese, con laurea e specializzazione a Bologna. Da quattro anni e mezzo è a Cesena.

In questi mesi coordina il lavoro di 53 medici che assistono 23 pazienti in terapia intensiva e nove in quella subintensiva. “Avremmo bisogno di un altro simulatore di ecocardiografia – dice in apertura di dialogo – dopo quello arrivato pochi mesi fa per la fibrobroncoscopia. Qui abbiamo meno possibilità di tenere allenate le così dette skills. Col simulatore invece si può fare, per completare la formazione. Serve per imparare e affinare le tecniche. Sì, perché il sapere va condiviso”.

“Qua si può fare cultura e formazione – prosegue il direttore -. E sarebbe molto importante perché nella medicina molto dipende da quello che uno ha già visto. L’ecografo transesofageo è arrivato grazie al Covid. Ma se non c’è chi lo sa usare… Il Covid è un dramma, ma ha avuto un risvolto positivo: quello di averci fatto uscire dall’angolo. Ci ha fatti ricordare. In ogni caso le dico: l’ospedale di domani si deve pensare oggi”.

Al “Bufalini” in Terapia intensiva ci sono stati 53 pazienti nella prima ondata e ora siamo quasi a 60. Ogni ricovero non è mai stato inferiore a 15 giorni. “Per noi si tratta di un percorso molto impegnativo – dice il primario -. Ho dovuto imporre ai medici degli stacchi. Sia l’impegno clinico che quello emotivo sono molto stressanti. Mantengo un referente del reparto Covid che guarda da fuori il nostro lavoro e cambia ogni settimana (cfr. pezzo a fianco, ndr). Il rischio di perdersi e di stancarsi è dietro l’angolo. In più, attorno a noi altri fanno altro, non come a marzo quando tutto il resto si era fermato”.

Per fare questo lavoro in periodi così complicati occorre molta concentrazione. Nel reparto si svolgono quattro turni completi: uno nella terapia intensiva Covid, due nei non Covid e uno in subintensiva Covid. Siete stanchi per tutta questa situazione? “È il mio compito – risponde il dottore -. Saremo stanchi quando tutto sarà finito. I miei sono sempre qua (e il primario pure, ma non lo dice, ndr). Siamo sempre sul pezzo. Ho bisogno di tutti in questo momento. E poi questo lavoro uno se lo porta a casa. Stiamo tirando da marzo come pochi. I malati più gravi arrivano da noi. E noi diciamo di sì a tutti”.

Il virus sta mettendo in difficoltà gli ospedali? “Nella prima ondata ha coinvolto subito le rianimazioni. Ora noi non soffriamo, ma i malati che arrivano qua non riescono poi più ad andare nei reparti. Percorso sporco e pulito qui convivono e portiamo avanti tutti. Ma dopo un intervento per il quale si chiede il ricovero qui da noi, poi non si riesce più a trovare un posto letto nei rispettivi reparti”.

Vede una luce in fondo al tunnel? “Sempre. Nel nostro mestiere dobbiamo mantenere questo atteggiamento. L’attività ordinaria ci dà tanta luce. Il Covid ha fatto emergere le fragilità del nostro sistema sanitario che non sarà mai solido, ma dovrà essere antifragile, andando a prestito dal libro di Nassim Taleb. Abbiamo il dovere di imparare dalle nostre fragilità. Dobbiamo riuscire a superarle. Se accusiamo un colpo, dobbiamo sempre rialzarci”.

Imparare dagli errori. “Agli ospedali servono letti e spazi – dice con forza Agnoletti -. Ci sono stati ridotti spazi e sono stati portati via letti. E dopo, se arriva una pandemia, siamo inadeguati. Abbiamo la migliore medicina nel mondo, ma la nostre tecnologie sono arretrate. Abbiamo valori importanti, infatti tutti vengono curati. Ma chiediamoci: perché non si trovano medici che vengano a lavorare qua? Questo è un bel mestiere che vale la pena fare, eppure… Avevamo questo piccolo credito che ora il Covid ha fatto svanire. Ed è un rischio evidente. Questa è la vera stanchezza. Qua nessuno si tirerà mai indietro. Noi non siamo né eroi né persone da disprezzare. Siamo qui per i pazienti e a difesa del servizio sanitario che vorremmo provare a ricostruire in maniera diversa”.