Il ritorno di Rigoletto

«La donna è mobile», «Cortigiani, vil razza dannata», «Questa o quella per me pari sono», «Bella figlia dell’amore»: sono soltanto alcune delle arie che il “Rigoletto” di Giuseppe Verdi ha reso popolarissime in tutto il mondo, addirittura nel caso de «La donna è mobile» immediatamente dopo la prima esecuzione, l’11 marzo del 1851, al Teatro “La Fenice” di Venezia. Raccontano gli storici che Verdi fosse così certo dell’orecchiabilità di questa sua composizione da non farla mai provare al tenore che interpretava il lascivo duca di Mantova, se non pochissimo prima del debutto. Fece bene, perché già all’uscita del teatro la si sentiva canticchiare dalla gente, grazie ad una ritmica di sicura presa sulla memoria di tutti. Il Conservatorio “Maderna” di Cesena ritorna sui suoi passi, proponendo ancora il capolavoro verdiano, dopo averlo eseguito nel 1997 e nel 2007: in scena sabato  21 e domenica 22 settembre sul palcoscenico del Teatro “Bonci” di Cesena, in collaborazione con il Comune di Cesena, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Cassa di risparmio di Cesena, nell’ambito del concorso “Primo palcoscenico”, che ha dato la possibilità a tanti giovani cantanti di sperimentarsi in un’opera lirica nel contesto più suggestivo, e professionalmente adatto, che si possa immaginare, e per molti è stato un vero trampolino di lancio.

 

Da Triboulet a Rigoletto

 

La storia di quest’opera è leggendaria: Verdi, che molti critici hanno definito il più grande drammaturgo europeo dopo Shakespeare, e che aveva uno straordinario talento non solo per la musica, ma anche per il teatro e le sue regole, dopo aver incontrato “Il re si diverte” di Victor Hugo (1802 – 1885), fosco dramma del 1832, intuì le potenzialità dell’opera. Ebbe un fiuto straordinario, perché anche se il nome di Hugo era sulle bocche di tutti nei salotti letterari europei, e i suoi drammi riempivano i teatri, “Il re si diverte” non aveva incontrato presso il pubblico un chiaro successo. La censura, inoltre, proibì il dramma dopo la prima recita. Il tema portante, quello del deforme buffone del re (Francesco I, nel dramma di Hugo), che per vendicare l’onore perduto della propria bellissima figlia, violentata dal sovrano, vuole uccidere il colpevole, non poteva che suscitare le ire della censura e dei benpensanti. Triboulet, inoltre, è un carattere molto curioso: vile, malvagio, pronto a colpire chi è più debole di lui, si riscatta però per l’incondizionato amore che porta verso la propria figlia, che Hugo chiama Blanche, con un evidente gioco di parole fra il nome e il candore del suo animo. Un’ironia tragica grava sul buffone: il re scopre il segreto che egli ha per così tanto tempo conservato, si finge un giovane studente per fare innamorare di sé la figlia del giullare, la porta con sé al Louvre, abusa di lei, e poi se ne dimentica. Triboulet giura vendetta, servendosi del sicario Saltabadil, ma nella notte di tregenda in cui, attirato da Maguelonne, sorella del sicario, il re riposa nella locanda di Saltabadil, accanto alla Senna (utile collocazione, per liberarsi dei corpi delle sue vittime), Blanche pure vi giunge, scopre il piano del padre, e si immola per salvare l’amato. Maguelonne, infatti, affascinata dal re, chiede al fratello di non ucciderlo, e di eliminare, invece, il primo passante che chiederà ospitalità nella locanda. Blanche così viene uccisa al posto di Francesco I, e quando Triboulet giungerà, dopo la tempesta, a reclamare il corpo del defunto, scoprirà, prima di gettare il cadavere nel fiume, che proprio Blanche è stata uccisa. Si è così avverata la maledizione che, all’inizio del dramma, il conte di Saint-Vallier aveva scagliato contro il re e il buffone: il primo, perché aveva abusato di sua figlia Diana, il secondo perché derideva un padre afflitto. Chi conosce il dramma verdiano, avrà riconosciuto praticamente ogni scena dell’opera. Francesco Maria Piave (1810 – 1876), librettista che legò in gran parte la sua vita alla produzione di libretti per Verdi (ben dieci, fra cui “Ernani”, “Macbeth”, “Traviata”), e che era solito scrivere i testi seguendo attentamente le indicazioni del compositore, concentra in tre atti i cinque del testo originale, ma segue fedelmente lo sviluppo della vicenda. Tanto fedelmente che anche le censure dei vari Stati italiani attaccarono il dramma, che Verdi avrebbe voluto intitolare “La maledizione”, per sottolineare la potenza quasi demoniaca dell’iniziale attacco che il conte di Saint-Vallier, diventato conte di Monterone, rivolge a Triboulet e a Francesco I. Fu solo dopo estenuanti trattative che Francesco I divenne Vincenzo I Gonzaga (1562 – 1612), famoso proprio per la vita condotta nel lusso più sfrenato e all’insegna dell’amore per tutte le donne che incontrava. Come sanno gli appassionati, però, il nome completo del duca non viene mai pronunciato durante l’opera, e l’ambientazione non è quella di fine XVI secolo ma, più genericamente, dell’inizio del Cinquecento. Parallelamente Triboulet si trasformò in Rigoletto, Blanche divenne Gilda, Saltabadil Sparafucile e Maguelonne Maddalena. Da quel 1851 il cammino trionfale del rinnovato “Rigoletto” non ha conosciuto soste, merito di un testo efficace e, soprattutto, della genialità musicale di Verdi, che dà un’assoluta profondità umana al protagonista, sospeso fra la sua natura vile e abietta e i puri sentimenti di un padre affettuoso, fa innamorare lo spettatore di Gilda, una creatura tenera e delicata, ma pronta al supremo sacrificio per amore, e rende addirittura simpatico uno dei personaggi più infami della storia dell’opera, un lussurioso pervertito, il duca di Mantova, del tutto indifferente ai sentimenti di chiunque. Miracoli della musica.

 

L’edizione del Conservatorio “Maderna”

 

A 12 anni di distanza dall’ultima esecuzione, “Rigoletto” è tornato sul palcoscenico del Teatro comunale di Cesena, in un allestimento spartano, per via dei fondi ristretti rispetto al passato, ma molto efficace. Le scene, di Riccardo Canali, prevedono infatti un cubo centrale che di volta in volta, con piccoli accorgimenti, diventa reggia del duca di Mantova, casa di Rigoletto, locanda di Sparafucile. Le luci, curate da Valentina Montali, hanno fatto il resto, dando profondità e suggestione in molti momenti (in particolare nel terzo atto), con un tono onirico di grande bellezza. La regia, di Alfonso Antoniozzi, basso molto attivo, in particolare alla Scala di Milano (ricoprirà il ruolo del Sagrestano nella “Tosca” del prossimo 7 dicembre), è tradizionale, concedendosi qualche allontanamento dalle abitudini più diffuse, come si è potuto vedere soprattutto nel terzo atto, in cui il duca di Mantova mostra nei confronti di Maddalena, sorella di Sparafucile, un rapporto masochistico; nello stesso atto il sacco in cui andrebbe chiuso il corpo di Gilda, mortalmente ferita, scompare, trasformandosi nello stesso mantello da viaggio della ragazza, con un risparmio nei movimenti da parte di Rigoletto che può ritrovare sua figlia semplicemente spostando il cappuccio del mantello. Veniamo al cast: in generale tutti gli interpreti sono stati all’altezza; fra i comprimari un elogio va allo Sparafucile di Massimiliano Svab, per presenza scenica e qualità della voce; dei tre protagonisti vanno apprezzate le voci e le interpretazioni di Matteo Jin (Rigoletto) e Yue Wu (Gilda), mentre Shinho Kim (il duca) è sembrato un po’ in difficoltà, soprattutto nel terzo atto («La donna è mobile», infatti, non è stata applaudita dal pubblico) e all’inizio dell’opera, mentre nel corso del primo e per il secondo atto è sembrato più efficace. Noi abbiamo assistito alla recita di sabato 21 settembre, quindi non possiamo testimoniare sul cast della seconda serata; possiamo però testimoniare che il pubblico, non molto numeroso, presente al “Bonci” sabato sera ha applaudito con calore ed affetto il cast vocale e l’orchestra del Conservatorio “Maderna” diretta con mano sicura da Paolo Manetti (il coro è stato diretto da Gianfranco Placci). Peccato che non ci fosse un pubblico più cospicuo per una serata che ha reso onore a Verdi. Perfino cantanti provenienti dalla lontana Cina sentono il bisogno di confrontarsi con il “cigno di Busseto”, e per farlo devono imparare la nostra lingua: è qualcosa che non smette, e non smetterà mai, di riempirci di orgoglio. Ancora una volta, dunque, viva Verdi!