Alluvione a Faenza, il nostro racconto

Lungo la via sotto casa le auto non si vedono più. Sono sommerse dall’acqua. Un’immensa distesa di acqua marrone e sporca, che copre tutto e continua ad alzarsi, minuto dopo minuto. Si vedono invece i gommoni dei soccorsi, instancabili, che fanno avanti e indietro a recuperare le persone rimaste incredule agli ultimi piani degli edifici. Ogni tanto un allarme – sarà di un’auto? Di un negozio? O della vicina scuola di musica? – rompe il silenzio di stupore al quale tutti assistono. È questo il drammatico risveglio che ha accompagnato, come me, tanti altri cittadini di Faenza, una delle città più colpite dalle alluvioni di mercoledì.

In poche ore il livello del fiume Lamone si è alzato di dieci metri. E meno di un’ora – dalle due di notte circa – è bastato per mettere in ginocchio un intero quartiere, con l’acqua che in poco tempo ha invaso diverse vie entrando nelle cantine, poi al piano terra e nei garage, minacciando di continuare a salire. I più pronti sono riusciti a fuggire in tempo. Altri – le comunicazioni istituzionali hanno latitato: non è arrivato nessun allarme ai residenti se non a giochi già fatti – quando si sono svegliati si sono trovati di fronte a quella distesa immensa di acqua sporca di fango che continua a crescere.

Si accende l’interruttore, ma la luce non arriva. Anche l’elettricità è saltata, così come il riscaldamento e, pur essendo maggio, non è un dettaglio di poco conto. Con le piogge è arrivato anche un freddo pungente: in casa per tutta la mattina sto col giubbotto. Chi ha la fortuna di vivere ai piani alti degli edifici può decidere di rimanere in casa e aspettare – perché l’acqua non starà lì per sempre, giusto?. Si tratta di alcune persone anziane. Il cibo in casa c’è e si centellina la batteria del cellulare per restare in contatto coi parenti, in attesa che tutto sia finito. Altri, come me, decidono di sfollare. Forse non solo per esigenze pratiche – il freddo, l’assenza di elettricità, la paura, le esigenze lavorative ecc… – ma perché sentirsi bloccati in quella situazione fa male. Fa maledettamente male. Lo abbiamo sperimentato già con la pandemia.

Le auto non si vedono più, ma si vede un gommone. La persona a bordo mi urla con un accento veneto se voglio evacuare. Non ci penso due volte. Corro a chiamare gli altri residenti del mio condominio: nessuno deve restare solo e il prossimo gommone chissà quando passerà. Siamo in sei in tutto, alcuni molto anziani. Dopo un po’ arriva un mezzo anfibio dei Vigili del fuoco che attracca con una scala, siamo nella terrazzina del secondo piano. Aiutati da loro scendiamo uno a uno e navighiamo in via Pellico che è diventata un vero e proprio canale con acque alte fino anche tre metri. Dietro di noi le nostre abitazioni: chissà quando ci torneremo dentro. Ai nostri lati, della scuola di musica vediamo ormai solo il cartello. Di altre case solo tetti e terrazze.

Nel pomeriggio mi reco al palaCattani, il palazzetto dedicato a ospitare gli sfollati. In quel momento sono una ventina. La notte prima erano 50: molti infatti, una volta giunti lì, trovano riparo da amici o parenti. Incontro Loreth, madre nigeriana con due bambini piccoli. Dal 2006 abita a Faenza, ma in quel momento non ha nessuno da cui andare. “Sono scappata di corsa nel pieno della notte, in ciabatte, senza riuscire nemmeno a mettermi un giubbotto addosso”, mi dice. Il suo appartamento è al piano terra di via Cimatti, una delle vie più colpite dall’alluvione. Mi mostra le immagini drammatiche della loro casa “appena sistemata a nuovo” con tanti sacrifici e fatica a trattenere le lacrime.

A tardo pomeriggio arrivano le prime notizie di miglioramento: il ponte delle Grazie riapre al traffico, il livello dell’acqua comincia a calare, anche se tornare a casa mia rimane un miraggio con i gommoni che fanno ancora su e giù. Fino a tarda sera i soccorritori non si danno tregua, alcuni sono in servizio dalle prime ore della mattina. Si recuperano le ultime persone rimaste bloccate. Maurizio e Cristina, una coppia che conosco, residenti in via Cimatti, scendono verso le dieci di sera dal mezzo dei Vigili del Fuoco. Stupito, sento lo zaino che hanno portato con sé miagolare: all’interno c’è il loro gatto. Impaurito, ma salvo. Siamo già a dopo le dieci di sera quando intervisto il caporeparto della Protezione civile sul posto. Mi dice: “Ho assistito a tante alluvioni in trent’anni di servizio. La cosa più importante, sempre e comunque, è salvare tutte le vite. Qui a Faenza ci siamo riusciti”. In altre realtà non è stato così, come a Castel Bolognese o Fontanelice.

Il giorno dopo è quello in cui inizia la conta dei danni. La razionalità e la rabbia prendono il posto dell’adrenalina. Ascolto Wilmer, titolare dell’impresa edile che abita a pochi passi da me, intento a spalare il fango di fronte alla propria attività. Si chiede come sia stato possibile tutto questo, perché sono stati condotti in questo modo le comunicazioni – non basta usare facebook, mi dice. Con altri residenti, con cui magari non avevo mai scambiato parola, condivido le esperienze di queste ore: sono tante le domande in attesa di risposta. Le strade dalle quali l’acqua si è ritirata emanano quell‘odore di fango che ormai si è attaccato alle persone, come un marchio.