Morti di Diana e Valentina. Pollo: “Non si riconosce più il mistero della vita, il suo valore e la sua indisponibilità”

Due morti tragiche, causate da chi avrebbe dovuto custodire e amare quelle vite. Stiamo parlando di due casi che scuotono l’estate 2022: la morte per stenti di una bimba di 18 mesi, Diana, lasciata sola per quasi sette giorni dalla mamma, Alessia Pifferi, descritta dal pm, dopo l’interrogatorio, come una persona “capace di commettere atrocità, pericolosa e che non ha avuto scrupoli”; e l’uccisione di Valentina Giunta, 32 anni, per mano del figlio quasi quindicenne, che l’ha accoltellata non perdonandole di voler lasciare il padre violento e detenuto per furti d’auto e per tentato omicidio. Un uomo per il quale il ragazzo, plagiato dai nonni, aveva un’adorazione. Un filo rosso di sangue che lega il Nord, Milano per la piccola Diana, al Sud, Catania per Valentina, e coinvolge i vincoli più sacri, quelli che dovrebbero legare una mamma a una figlia e un figlio a colei che l’ha tenuto in grembo per 9 mesi. Su come possano avvenire delitti così efferati abbiamo sentito Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.

Professore, com’è possibile che si lasci morire o si uccida una persona che si dovrebbe avere a cuore più di tutte?

In entrambi i casi c’è un intreccio tra un elemento soggettivo personale – ogni persona è dotata di una coscienza, uno degli elementi ancora caratteristici dell’umano, e del libero arbitrio, anche se oggi non siamo molto educati a utilizzare la capacità di discernere – ed un elemento culturale. Concentriamoci su Diana: quando penso come è morta quella bimba, di stenti e da sola, per me è una vicenda che va al di là dell’umano, fa rabbrividire.

Com’è possibile che una madre abbia fatto questo?

C’è dietro l’idea che la vita e le creature che si possono generare siano nella propria disponibilità soggettiva. Ad esempio, se dico che l’aborto è un diritto – legato alla disponibilità totale che una persona ha del suo corpo e di ciò che genera il suo corpo – e non un evento tragico, introduco un vulnus e cioè che la vita è legata alla soggettività della persona, al suo sentire individuale. Non c’è più il mistero di una vita che, nel momento stesso in cui è generata, è altro da se stesso ed è intangibile, una vita su cui anche una madre non ha più alcuna disponibilità se non quella dell’amore e della cura.Questo aspetto è andato completamente in crisi con l’ideologia che si sta diffondendo sempre di più nelle nostre culture sociali. Se a questo aggiungiamo che nella società attuale le persone cercano la propria realizzazione attraverso lo svago, il divertimento e opportunità di vario genere, considerati, nel caso di Milano, più importanti dell’obbligo di cura, siamo di fronte a un altro mito fasullo della nostra realtà.

Di cosa si tratta?

Il mito dell’autorealizzazione. C’è l’idea che ci si possa sottrarre alla cura dei figli perché si ha il “dovere” di realizzarsi e non si coglie più che un genitore sviluppa la sua autorealizzazione nella cura dei figli, primariamente.Questa dimensione della cura come autorealizzazione è fondamentale per un genitore e, invece, viene visto come un aspetto della vita che toglie tempo, spazio e opportunità all’autorealizzazione personale e alla vita che si desidera vivere.Al contrario, una vita piena e autorealizzata è quando ci si prende cura e si amano fino in fondo i figli, trovando un equilibrio tra il proprio benessere e quelli dei propri cari, che non metta in crisi la persona. Abbiamo anche dimenticato che uno degli elementi che caratterizza l’età adulta è il prendersi cura delle nuove generazioni e assumersene la responsabilità. E questo perchéci sono adulti che sono affetti dall’“ethos infantilistico”, cioè adulti restati bambini, che mettono al centro i propri desideri. Adulti incapaci di assumersi le responsabilità di fronte alle loro azioni e ad accettare e a pagare le conseguenze dei propri gesti.In questo mix culturale, poi c’è una gamma di comportamenti, a seconda delle persone coinvolte: da quelle più capaci di discernere tra il bene e il male ad altre che invece si rendono protagoniste di casi estremi, fortunatamente ridotti.

Cosa possiamo dire del ragazzino che ha ucciso la mamma?

È una vicenda speculare all’altra, ma che è anche legata all’abolizione delle differenze tra genitori e figli.Un tempo verso i genitori non si avevano solo diritti, ma anche doveri e si manifestava riconoscenza, che riecheggia nel quarto Comandamento: “Onora il padre e la madre”. Questo significava riconoscere che loro sono l’origine della nostra esistenza, per cui si ha un debito nei loro confronti che nulla può estinguere.Tale elemento, oggi, di fatto è stato rimosso, non esiste più e i genitori sono considerati alla pari, non c’è più asimmetria. Ciò si manifesta anche in quella che è stata definita la fine dell’autorità interiore e dell’autorità della madre, che ha portato il figlio in grembo per nove mesi. Poi nel caso specifico di Catania, c’è anche il problema di una famiglia paterna disfunzionale, che propone modelli di vita devianti. Questo ha contribuito a rendere patologico il rapporto del figlio nei confronti della mamma. Anche in questo caso si riflette il fatto che la vita degli altri non viene più percepita come indisponibile, come un mistero che trascende la nostra singola esistenza. Non viene considerata più la vita che ha un soffio divino dentro di sé, ma si pensa solo come un elemento biologico, che si può anche riprodurre in vitro. Eppure, il mistero della vita dovrebbe lasciare a bocca aperta, non saperlo cogliere ci induce a non averne cura e rispetto, banalizzando il valore stesso della vita.