I due Lucio e quella musica che gira intorno

Il 4 e il 5 marzo i due Lucio, Dalla e Battisti, avrebbero compiuto ottant’anni. Nati l’uno a Bologna, l’altro a Poggio Bustone, in provincia di Rieti (che non è in Ciociaria come è stato scritto da alcuni), hanno contribuito a riportare la poesia nella canzone, dimostrando che non era solo questione di musica francese, dai trovatori a Brel e a Brassens, o di Bob Dylan e di radici folk e blues. Anche perché in Italia quella fusione c’è sempre stata, fin dai tempi di Dante, e pure prima. Non è un caso che nel secondo canto del Purgatorio un amico di Dante, Casella, intoni una canzone (e già questo sostantivo ci dovrebbe dire qualcosa) dello stesso Alighieri, “Amor che nella mente mi ragiona”.

In qualche modo Battisti e Dalla sono stati i continuatori di questa tradizione in cui i versi erano anche cantati, un po’ come quella “4/3/1943” scritta da Paola Pallottino per la musica e la voce del Lucio felsineo, originariamente “Gesù Bambino”: per intervento della censura dovette ripiegare sul titolo destinato a diventare però uno dei “classici” italiani.

Un po’ come per Battisti-Mogol, in realtà Giulio Rapetti, che hanno (ri)consegnato alla storia della cultura la canzone popolare, nel senso che piaceva a Battisti: talmente vicina alla sensibilità delle persone da far pensare di averla scritta loro, quella canzone. E però con incursioni negli abissi dell’anima: l’incapacità di amare, la paura dell’altro, la fuga, il timore del no o al contrario dell’impegno in una storia.

Dalla non era solo il cantore – con accenti autobiografici – di bambini lasciati alla cura di mamme disposte a tutto pur di allevarli con amore, ma anche di Salmi biblici e di vere e proprie poesie contemporanee: dal 1973 al 1976 escono tre lp con testi scritti da Roberto Roversi, poeta fuori dagli schemi che ad un certo punto aveva deciso di rinunciare ai proventi editoriali e di distribuire le sue poesie in ciclostile: la questione operaia, lo sradicamento dalle campagne del sud al cemento metropolitano del nord, l’amore e le sue illusioni e disillusioni, come avviene nella splendida “Tu parlavi una lingua meravigliosa”: lui incontra dopo tanti anni un antico amore in una piccola stazione, vorrebbe parlarle e sapere se il tempo dell’incanto è rimasto anche nel suo cuore, ma lei non se ne accorge neppure, e il treno riparte portandosi via sogno e illusioni.

Anche Battisti ha interpretato canzoni in cui l’amore è tutt’uno con altro: quella malinconia senza causa apparente e che ci sorprende in momenti in cui non ce lo aspetteremmo, come in “Nessuno nessuno”, portato al successo dalla Formula tre, o in “Giardini di marzo” o “Pensieri e parole”. Come amava dire lo stesso Battisti, non servono paroloni per mettersi dalla parte di chi attraversa momenti di crisi o delusioni non solo d’amore.

Tutti e due hanno cantato gli angoli più nascosti della vita, come il Dalla che un tempo si sarebbe chiamato cattocomunista (ma lui era vicino al Psiup, a sinistra del Pci) di “Non basta sapere cantare”, ma anche quelli più solari, fin dal titolo, come “La canzone del sole”, che però nasconde anche dubbi, ricordi di possibilità e di esperienze inquiete.

La presenza, talvolta incognita di Dio, la capacità di dare voce a quanti si sono riconosciuti finalmente nelle canzoni hanno fatto di Dalla e Battisti i simboli di un quasi mezzo secolo (dagli anni Sessanta fino al ’98 per Battisti e al 2012 per Dalla) che ha segnato il rinnovamento della canzone italiana, libera da strette dipendenze e nello stesso tempo continuatrice della grande svolta dei favolosi Sessanta dei Beatles, dei Rolling Stones, di Bob Dylan, Ray Charles e quei pochi altri che hanno creato la musica, direbbe Ivano Fossati, che gira intorno. Ancora oggi.