I quesiti referendari e il ruolo di garanzia della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili cinque degli otto referendum abrogativi che gli erano stati sottoposti. Riguardano tutti l’ambito della giustizia. Ha invece dichiarato non rispondenti ai requisiti costituzionali quelli che puntavano ad abolire il reato di omicidio del consenziente, a depenalizzare la coltivazione della cannabis e a introdurre la responsabilità civile diretta dei magistrati.

Sul primo di questi tre quesiti – strumentalmente propagandato come relativo all’eutanasia – già alla vigilia erano state espresse da molti giuristi serie perplessità, tanto era abnorme il suo contenuto e palesemente inaccettabile la normativa che sarebbe derivata dall’eventuale abrogazione. In attesa del deposito delle motivazioni, la spiegazione sintetica contenuta nel comunicato della Corte è già molto eloquente: “Non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Il presidente della Consulta, Giuliano Amato, nell’inedita e non casuale conferenza stampa che è seguita alla camera di consiglio, si è detto “ferito” dalle reazioni scomposte del comitato promotore e ha sottolineato con forza che il quesito non riguardava l’eutanasia o il suicidio assistito – su cui la Corte, peraltro, si è già pronunciata e su cui in Parlamento si sta discutendo – ma una fattispecie potenzialmente larghissima, quella dell’omicidio della persona consenziente anche se fisicamente sana.

Nella medesima conferenza stampa Amato ha spiegato come il quesito sulla cannabis fosse in realtà formulato in maniera tale da consentire – in caso di avvenuta abrogazione – anche la coltivazione di quelle che comunemente vengono definite droghe pesanti e questo avrebbe posto l’Italia in rotta di collisione con i trattati internazionali a cui ha aderito, in sostanziale contrasto con l’art. 75 della Costituzione che esclude esplicitamente la materia dei trattati dal campo di applicazione dei referendum.

Il terzo quesito non ammesso riguarda la responsabilità civile dei magistrati che nel nostro ordinamento è sempre stata vigente in forma indiretta (in pratica il cittadino cita in giudizio lo Stato che poi si rivale sul magistrato) mentre, in seguito a un eventuale esito positivo del referendum, si sarebbe di fatto e di diritto introdotta una forma diretta. In questo modo, però, come ha sottolineato Amato rinviando al deposito delle motivazioni per argomentazioni più complete, il referendum non sarebbe più stato “abrogativo” ma “innovativo”.

I quesiti ammessi puntano all’abrogazione della cosiddetta “legge Severino” che prevede la decadenza e l’incandidabilità dei condannati in via definitiva per reati gravi contro la pubblica amministrazione (anche dopo il solo primo grado per gli amministratori locali); alla riduzione dei casi in cui è prevista la possibilità della custodia cautelare prima della sentenza; a una netta e irreversibile separazione di funzioni tra magistratura inquirente e giudicante (vale a dire tra pm e giudici); all’abolizione dell’obbligo di raccogliere le firme di 25 magistrati per proporre una candidatura al Csm; all’allargamento agli avvocati del diritto di voto sulla professionalità dei magistrati all’interno dei consigli giudiziari.

Su tali quesiti si voterà in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno prossimi e per la validità della consultazione sarà necessario il quorum della metà più uno degli elettori. Va anche ricordato che sulle materie di tre dei cinque quesiti ammessi è già in corso una discussione parlamentare e le eventuali modifiche legislative potrebbero rendere superati i referendum.

Del resto questa è la fisiologia del nostro sistema istituzionale, almeno fino a quando saremo una democrazia parlamentare secondo Costituzione, e in questo sistema alla Corte costituzionale è affidato un prezioso ruolo di garanzia che, al di là di un ragionevole diritto di critica, sarebbe pericoloso mettere in discussione.