Ricordati gli 80 anni dalla bomba sull’Avvenire d’Italia

Il 29 gennaio 1944 Bologna venne colpita da una pioggia di bombe da parte degli aerei americani, che provocò danni e morti in tutta la città. L’obiettivo doveva essere la stazione ma gli edifici danneggiati furono tantissimi, in tutto il centro storico. Tra essi, la sede dell’Avvenire d’Italia, dove la bomba per fortuna non provocò morti né feriti, ma distrusse la redazione di uno dei pochi giornali che aveva resistito per tutta l’epoca fascista, allora diretto da Raimondo Manzini, con firme come quella di Odoardo Focherini.

Per ricordare questo avvenimento, lunedì a Bologna, nella Basilica parrocchiale di San Martino Maggiore, si è tenuto l’incontro “Dalle macerie alla rinascita, 80 anni dalle bombe sull’Avvenire d’ Italia” con l’adesione dell’ Ucsi Emilia-Romagna, dell’Università Istituto Tincani, del Mcl e di «Media memoriae», i cronisti di storie e tradizioni. “Anche Bologna fu una città martire della seconda guerra mondiale – ha ricordato Roberto Zalambani, consigliere Ucsi e organizzatore dell’appuntamento -. Furono quasi 2700 i morti sotto le bombe in quegli anni”. Zalambani ha anche letto una pagina pubblicata dopo l’attacco, con l’appello a rinnovare l’abbonamento “perché ce n’è bisogno (il danno alla redazione e alle macchine fu quantificato in 2 milioni di lire, ndr) e la promessa di tornare presto in rotativa: ‘il giornale proseguirà nella sua missione apostolica’”.

Lo storico Giampaolo Venturi ha fatto il punto sulle dinamiche del giornalismo di guerra (quanto mai attuale) e su quello che voleva dire per il giornale uscire sotto il regime fascista: “Non solo attacchi veri e propri, ma relazione continua con il potere fascista. il problema era chiaramente mantenere l’autonomia: infatti a un certo punto il giornale si autosospese. Dopo la guerra non ci furono ricordi particolari dell’attacco all’Avvenire, ma da parte della Chiesa ci fu un impegno fortissimo per la sua prosecuzione”.

Sergio Fantini, giornalista, ultimo testimone dell’Avvenire d’Italia, ha ricordato quando, allora bambino, frequentava la redazione, incuriosito dal lavoro: “Il direttore, Raimondo Manzini, si chiudeva in una stanza con Focherini e io origliavo. Parlavano della situazione della città e del pericolo dei bombardamenti. Io avevo paura e volevo andare a Monghidoro dai miei nonni, dove pensavo di essere più al sicuro. Ma paura l’avevano tutti”.

“All’epoca l’Avvenire d’Italia era in tutte le case – ha concluso Francesco Zanotti, presidente dell’Ucsi Emilia-Romagna e direttore del Corriere Cesenate -. Lo trovavo anche in quella dei miei nonni quando da Como, dove c’era l’Ordine (quotidiano cattolico) venivo al mare in Romagna. Era considerato importante perché importante è come ci si forma un’opinione sul mondo, come si forma l’opinione pubblica. Noi giornalisti, in questo, abbiamo una grande responsabilità, quella di sapere che con le notizie trattiamo anche le persone. Ma la domanda è: ha ancora senso oggi per la Chiesa avere dei media suoi, investire in questi mezzi di comunicazione? Chi ci ha preceduto ha risposto di sì, oggi molti hanno dei dubbi. Ecco, io credo che ci sia una ‘carità culturale’ che consiste appunto nel formare l’opinione pubblica, informando. É un investimento, certo, che però assicura al nostro lavoro la libertà che abbiamo, con uno specifico punto di vista sul mondo”.

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