Il decreto carceri è legge. Grimaldi: “Ci sono spiragli di luce per una umanizzazione degli istituti”

È diventato legge il decreto carceri, con il via libera definitivo ottenuto alla Camera. Sono stati 153 i voti favorevoli, 89 i contrari e un astenuto. Tra le novità previste, l’assunzione di mille nuove unità per il Corpo della Polizia penitenziaria, ma anche procedure più snelle per concedere di uscire dal carcere in anticipo a chi ne ha diritto, più telefonate per i detenuti e l’istituzione di un albo di comunità adibite alla detenzione domiciliare. Don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, offre all’agenzia Sir una visione pastorale del decreto carceri da poco convertito in legge.

Don Raffaele, che idea si è fatto del provvedimento approvato?

La mia è una lettura pastorale condivisa dai cappellani. Il “decreto” è frutto di un lavoro umano e come tale inevitabilmente presenta luci e ombre, non è perfetto in tutto ma c’è uno sforzo di voler umanizzare di più le carceri. Guardando al voto in Aula, c’è stata una spaccatura che indica come a livello politico ci siano giudizi contrastanti in merito.

Quali sono gli aspetti che saluta come maggiormente positivi?

Dal punto di vista pastorale ci sono aspetti che possono aiutare all’umanizzazione: tra questi, l’assunzione di personale di Polizia penitenziaria può essere un’attenzione per favorire l’umanizzazione delle carceri, perché la mancanza di operatori riduce le attività all’interno delle carceri. E in questi ultimi anni tra gli agenti che vanno in pensione e i nuovi assunti non si riesce a portare in equilibrio il numero del personale nelle strutture penitenziarie. Un altro aspetto positivo è la possibilità di liberazione anticipata. Anche questa può essere una buona opportunità per i detenuti, ma c’è bisogno della collaborazione e della responsabilità dell’individuo. Se il magistrato vede che il detenuto ha partecipato al trattamento e alla rieducazione può giudicare positivamente questo atteggiamento con un parere positivo su una liberazione anticipata. Il detenuto viene coinvolto a vivere un percorso critico del proprio passato e a rivedere la sua vita attraverso alcune attività che lo aiutano nel trattamento. Per noi cappellani, dal punto di vista pastorale, questo può essere un atteggiamento positivo perché tanti detenuti potrebbero uscire dal carcere con la liberazione anticipata. Ovviamente, ci sono poi tanti aspetti burocratici che rallentano la messa in pratica del decreto carceri.

Ci sono altri aspetti che sono validi dal punto di vista dei cappellani?

Un aspetto positivo sono i detenuti che possono accedere a strutture residenziali, in comunità pubbliche o private e questo è aspetto riguarda soprattutto i detenuti tossicodipendenti, ma anche a coloro che non hanno una residenza, perché molti detenuti potrebbero uscire dal carcere ma non avendo una residenza il magistrato non dà la possibilità alla persona di uscire dall’istituto penitenziario, quindi allungare l’elenco delle strutture residenziali, che potrebbero accogliere dei detenuti non solo in permesso ma soprattutto tossicodipendenti e coloro che sono senza fissa dimora, potrebbe giovare a questa classe di detenuti. Ancora. Le telefonate sono state aumentate, ma sappiamo bene che indipendentemente dal decreto ogni direttore avendo davanti il detenuto che sta vivendo un momento particolare può decidere di aumentare le telefonate in questi casi: una moglie in ospedale, un figlio che non sta bene, una mamma che è grave. Per evitare agitazione, violenze, il direttore deve essere molto attento a questi aspetti concedendo al detenuto, al di là della nuova legge, telefonate che gli permettono di essere più sereno in quel momento di difficoltà.

Ci sono aspetti che pastoralmente non convincono i cappellani?

Nel decreto convertito in legge il 41 bis viene escluso dai programmi di giustizia riparativa. Il governo guarda alla sicurezza e lo possiamo comprendere perché chi è detenuto con la misura del 41 bis sconta gravissimi reati, ma, per noi sacerdoti, mai dovremmo togliere a qualsiasi persona in carcere l’orizzonte della speranza, quindi anche al detenuto al 41 bis che vive segregato per motivi di sicurezza, anche se su questo noi non abbiamo nulla da dire perché lo Stato vuole garantire la sicurezza dei cittadini. C’è anche un altro aspetto problematico.

Ci dica…

Nel decreto convertito in legge si parla anche degli stranieri, che in tempi brevi – dopo gli accordi con i singoli Stati – dovrebbero scontare la loro pena nei loro Paesi di origine: potrebbe essere la cosa giusta che possano rientrare nei loro Paesi di origine, ma ci chiediamo come verrà scontata la pena da queste persone nei loro Paesi di origine dove tante volte anche la dignità della persona viene calpestata? In tante nazioni parlare di umanizzazione delle carceri è un’utopia in questo momento. Il problema è che tanti stranieri potrebbero tornare nei loro Paesi di origine per continuare l’esecuzione della loro pena, dove si correrebbe il rischio che il trattamento sia disumano.

In carcere secondo lei com’è stata valutata la nuova legge?

Molti la aspettavano da tempo, forse alcuni speravano in qualcosa in più, quindi sono stati delusi, ma ci sono degli spiragli di luce che vogliamo cogliere anche a livello pastorale, di operatori che vivono la loro missione all’interno del carcere e che per primi siamo chiamati a umanizzare il carcere aiutando il detenuto a superare i suoi momenti critici nell’istituto penitenziario.

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