Coronavirus. Fase 2: “Vietato abbassare la guardia”. Dentro e fuori dall’ospedale

“Siamo nella terra di mezzo”, ripetono quasi all’unisono il direttore del Santa Maria delle Croci, Paolo Tarlazzi e la direttrice del Servizio di Radiodiagnostica Maria Teresa Minguzzi, all’inizio di questa agognata e difficilissima Fase 2. Lo dicono anzitutto i numeri: attualmente ci sono un paziente ricoverato in terapia intensiva a Ravenna e una trentina tra Pneumologia e Malattie Infettive. Di contro, è tornato a salire il numero degli accessi al Pronto Soccorso, circa 120 tra domenica e lunedì.

“Facciamo molti tamponi, ma pochissimi sono positivi”, riassume il dottor Tarlazzi. Sembrano passati anni da fine marzo, quando i ricoverati per Covid superavano le 100 unità e il Santa Maria delle Croci era stato rivoluzionato per curarli. “Ora – aggiorna Tarlazzi – il quarto piano dell’ospedale è tornato ‘Covid free’ e il progetto è quello di dirottare su Lugo tutti i positivi, ‘pulendo’ progressivamente anche altri reparti. Anche perché nel frattempo abbiamo riavviato l’attività non urgente”. Progetti di riorganizzazione provvisori e connessi all’andamento dei contagi delle prossime settimane, chiarisce Tarlazzi: “Gli effetti dell’apertura di questi giorni li vedremo probabilmente a metà maggio”.

E nel frattempo? Nel frattempo, bisogna tenere a mente di essere in una “terra di mezzo”, spiega la radiologa Minguzzi, e non abbassare la guardia soprattutto sul fronte della diagnosi. Un esempio? “Quando accedono pazienti fortemente sintomatici, non ci fermiamo a considerare l’esito del tampone (che ha un’attendibilità del 70 per cento al primo tentativo, del 90 per cento al secondo e del 95 per cento al terzo, precisa Tarlazzi), ma facciamo sempre una Tac senza contrasto e, se è necessario, anche un esame come il bronco-lavaggio alveolare che ci segnala l’eventuale presenza del virus nelle vie aeree più basse”.

Per quel che riguarda il test sierologico, completa Tarlazzi, “ne abbiamo fatti a migliaia: prima ai nostri operatori e ora anche ad altre categorie di lavoratori come le forze dell’ordine, ma serve più che altro per sondare la popolazione clinicamente, non tanto per una diagnosi sui singoli”.  In sostanza, sarebbe utile per capire il livello di immunizzazione della popolazione non per evitare il diffondersi del virus. Un dato comunque interessante: perché non si fa a tappeto, come avvenuto in certe zone del Veneto con il cosiddetto metodo segugio? “Se la priorità fosse quella, saremmo anche in grado di organizzarlo, ma significherebbe impiegare una parte consistente del personale in questa rilevazione, oltre a trovare un numero di test sufficienti. È allo studio del Laboratorio Analisi di Pievesestina, però, e potrebbe essere disponibile tra un mese, un altro test salivare che davvero ci permetterebbe di farlo su larga scala in tempi brevi. Quella sarebbe davvero un’occasione per tracciare il profilo immunologico dell’intera popolazione e capire se queste misure eccezionali di contenimento sociale sono davvero indispensabili anche qui”.

Molti test sierologici sono stati fatti: che risultati hanno dato? “Abbiamo un numero bassissimo di immuni, pochi punti percentuali sul totale (niente a che vedere con quell’80 per cento di a-sintomatici di cui si legge in alcuni studi, ndr). E questo significa che qui il virus è circolato poco, e gli a-sintomatici sono una minima parte. Ovviamente si tratta di un campione (qualche migliaia di test, ndr) ma rappresentativo perché si tratta di soggetti che sono stati a contatto con malati”.

Infine, la domanda più difficile: cosa ci ha insegnato questa emergenza sanitaria? “Che dobbiamo essere ponti ad affrontare di tutto e lo possiamo fare solo collaborando – osserva Minguzzi –. Nessuno di noi, prima di febbraio, avrebbe mai pensato di dover fronteggiare un’infezione. Abbiamo re-imparato a farlo. L’errore da non commettere nel futuro è quello di orientarci solo verso una medicina super-specialistica, lasciando perdere il contesto, la comunità”. Quest’emergenza ha confermato l’imprescindibilità del Servizio sanitario nazionale, aggiunge Tarlazzi. “Il modello regionale ha dato una risposta che ha funzionato. Per il futuro, nella nostra Ausl Romagna, questo ci dice che non dobbiamo mai perdere di vista le caratteristiche dei singoli territori. Da soli non si va da nessuna parte”.