Coronavirus. Il medico cesenate Franco Valzania: “Cerchiamo di trasformare l’umana paura in una reazione creativa”

Franco Valzania, classe 1961, è un medico cesenate che da anni lavora in Emilia. Ricopre il ruolo di direttore (primario) di Neurologia per la Ausl-Irccs di Reggio Emilia. “Non sono uno che lavora nei reparti Covid-19 – dice raggiunto al telefono – ma vivo il problema più in generale, come organizzazione e come tutela del personale e dei pazienti che arrivano per un ricovero”. 

Dottore, come si convive in un ospedale che situato molto vicino alle zone più colpite dal contagio?

Per la prima volta ci siamo trovati a lavorare in una condizione fluida, che ogni giorno cresceva e soprattutto si modificava non sempre secondo le previsioni. Onestamente devo dire che la Direzione dell’azienda per cui lavoro ha dimostrato una buona dinamicità e flessibilità, cercando di giocare d’anticipo verso gli scenari che si andavano prefigurando. Sono stati più che raddoppiati i posti di Rianimazione quando ancora la situazione non era satura. Sono stati interamente convertiti due ospedali della rete provinciale (Guastalla e Scandiano) in ospedali Covid per decongestionare l’ospedale Hub, il Santa Maria Nuova di Reggio, all’interno del quale sono stati creati numerosi reparti Covid accorpando diversi reparti specialistici. 

Come si arriva in ospedale ogni mattina in questi giorni?

Da lunedì 9 marzo operatori e pazienti entrano in ospedale attraverso un triage serio in cui si misura la temperatura, si chiede lo stato di salute, si forniscono gel e mascherine…. Tutte le attività non urgenti e ambulatoriali sono state sospese per ridurre assembramenti e potenziali contagi. Si è deciso di limitare le visite dei familiari ai ricoverati e questo ci impegna a essere più vicini ai pazienti anche dal punto di vista psicologico, in quanto si sentono più smarriti. 

Per il personale le protezioni sono disponibili?

Le protezioni sono disponibili, ma la consapevolezza della forza del nemico si è percepita gradualmente. Mentre in un primo momento il target era il paziente verso il quale si era molto attenti, forse sono stati lasciati aperti dei varchi verso colleghi e familiari. Nessuno inizialmente pensava a una così elevata contagiosità e al gran numero di soggetti paucisintomatici, che risultano essere i più insidiosi. 

Quali sono le sue preoccupazioni più ricorrenti? Avete paura?

Come direttore di un reparto che tra personale medico, tecnico, infermieristico, psicologi e amministrativi consta di più di 70 persone, il mio pensiero è stabilmente orientato a gestire le cose al meglio per la sicurezza di tutti e al tempo stesso a supportare i miei collaboratori perché mantengano la calma e la lucidità necessarie. Ognuno di noi ha una famiglia, genitori anziani, figli, e il timore di essere noi stessi la causa di contagio aggiungerebbe al dispiacere il senso di colpa. Cerchiamo, anche con il supporto del nostro gruppo di psicologi, di trasformare l’umana paura in una reazione creativa, evitando il panico che in questi casi sarebbe deleterio. 

Tra voi in corsia ora come sono i rapporti?

Da oltre due settimane indossiamo costantemente cuffia e mascherina, spesso il sopra-camice. Ciò ha prodotto una cosa inattesa, che l’unico modo per riconoscersi è incrociare gli occhi, lo sguardo. Attraverso quell’unica fessura, al di là delle diverse sfumature di colore, si coglie qualcosa di nuovo di ogni persona, emerge il vero stato d’animo del momento e probabilmente si entra in un contatto più profondo. 

E la famiglia?

I programmi di tutti sono saltati improvvisamente. Io ho due figli all’estero, in Messico e in Canada. Nelle prossime settimane sarei dovuto andare a incontrali, ma ora non sarà possibile e non so fino a quando. Questa incertezza, oltre alla preoccupazione per la loro salute, mi toglie tranquillità. Essere medico o infermiere non significa non avere una propria vita. 

L’opinione pubblica vi addita come eroi. Le che ne pensa?

Con l’avvento del Coronavirus si spreca la retorica del medico martire. Fino a un mese fa la parola che più ci riguardava era “malasanità”. Dal mio punto di vista sono offensive e scorrette entrambe le visioni. Siamo professionisti, ovviamente non tutti uguali, non infallibili, ma con un’etica e di fronte al dolore e alla malattia non ci si tira indietro. Non per diventare eroi, ma per rispondere alla nostra coscienza.

Come pensa che possano essere i prossimi giorni?

Abbiamo la convinzione che questa fase non sarà breve e che più che improvvisare bisognerà organizzarci per un tempo medio-lungo, di alcuni mesi. Per questo stiamo pensando a nuove modalità di gestione dei pazienti con patologie croniche (Parkinson, epilessia, sclerosi multipla), che non possono recarsi in ambulatorio, contattandoli regolarmente al telefono e in alcuni casi con una video-chiamata. Questo toglie il senso di abbandono che serpeggia in certi malati, perché non deve affermarsi l’atteggiamento che al di fuori della pandemia non ci sono altri problemi. Ogni giorno continuano a soffrire e a morire molte più persone per altre cause, anche se queste non fanno notizia e nessuno ci può speculare. 

Quali considerazioni le vengono su questo periodo così drammatico?

Un elemento che credo vada sottolineato è che nel nostro paese, le ultime 2-3 generazioni, se si eccettuano alcuni tragici eventi naturali, comunque locali, quali un terremoto, hanno affrontato difficoltà e sofferenza personali, private. Ora, dopo la Seconda guerra mondiale, siamo di fronte a un nuovo grave evento collettivo. Non c’è più bisogno di spiegare cosa sta succedendo e se ne discute forse anche troppo. Bisognerebbe rientrare nella dimensione della comunità, in cui ciascuno pensa innanzitutto a quali conseguenze il proprio comportamento avrà sulle altre persone, e che o ci salviamo tutti o non si salva nessuno, non solo dalla Covid-19, ma dalla superficialità e dalla disumanizzazione. Siamo a un bivio tra acquistare armi come avviene negli Stati Uniti o abbattere le recinzioni attorno casa.

Spero che la reclusione forzata di questi giorni ci faccia uscire con un altro spirito, riscoprendo un mondo diverso, soprattutto dentro di noi. 

Da ultimo, dottore, per il dopo cosa intravede?

Certamente dopo questo evento la vita di ciascuno di noi non potrà essere più la stessa. L’illusione, citando papa Francesco, “di essere sani in un mondo malato” spero cada definitivamente. Non si muore perché qualcosa va storto, ma la morte fa parte della vita. La responsabilità di noi tutti, medici e uomini, sta nel renderla migliore ancora più che nell’allungarla. Riempirla di cose buone, di solidarietà, di bellezza, di attenzione agli altri e alla natura che ormai mal ci sopporta. A che scopo essere eterni se saremo meno umani e in definitiva soli….