Lettere
La “terza via” di Adriano Olivetti
La storia di Adriano Olivetti, nato a Ivrea nel 1901, è esemplare per chiunque voglia intraprendere la vocazione dell’imprenditoria. Si tratta di una realtà intrisa di studio, duro lavoro e, in modo particolare, di attenzione alla persona e al suo benessere generale, non solo quello esclusivamente materiale.
Ciò che scandì la sua intera esistenza, fu il continuo desiderio di comprendere che si sostituì fin da subito alla subdola logica dell’esercizio del potere personale.
Olivetti fu un grande ed “illuminato” uomo d’impresa per vari motivi: innanzitutto, amava circondarsi di persone competenti e preparate che fossero in grado di fornirgli validi consigli; in secondo luogo curò e fece propria quell’attitudine, denominata “empatia”, che muove una persona verso un’altra, immedesimandosi nello stato d’animo e nella situazione particolare altrui; infine, l’abile capacità creativa affiancata alla passione per la cultura e al gusto per l’estetica, senza trasgredire l’apparato valoriale di impronta cristiana.
Il motivo per cui ancora oggi si ricorda Olivetti è la sua spiccata intuizione di rendere conciliabile il perseguimento del profitto aziendale con l’attenzione riservata al raggiungimento della felicità e del benessere dei propri dipendenti.
Questa filosofia socio-economica, denominata “capitalismo umanistico”, si contrappone alla mera logica capitalista proprio per il rinnovato interesse rivolto alla persona e al rispetto della sua dignità oltre che dei suoi diritti specifici.
Seguendo questa linea di pensiero, l’imprenditore del Canavese riuscì a industrializzare e ad apportare un concreto sviluppo alla comunità circostante senza disumanizzare. È risaputo che la vita lavorativa all’interno delle aziende, soprattutto a quei tempi, era particolarmente faticosa ed alienante per l’uomo a causa dei ritmi produttivi da sostenere e, perciò, urgeva la ricerca di una soluzione con il conseguente ripensamento della catena di montaggio.
Come arrivò ad ammettere lo stesso Olivetti: «Nelle esperienze tecniche dei primi tempi, quando studiavo i problemi di organizzazione scientifica e di cronometraggio, sapevo che l’uomo e la macchina erano due domini ostili l’uno all’altro, che occorreva conciliare. Conoscevo la monotonia terribile e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Ma il cammino era tremendamente lungo e difficile. Mi dovetti accontentare in principio a volere l’optimum e non il maximum delle energie umane, a perfezionare gli strumenti di assistenza, le condizioni di lavoro. Ma mi resi a poco a poco ben conto che tutto questo non bastava. Bisognava dare consapevolezza di fini al lavoro. E l’ottenerlo non era più compito di un padrone illuminato, ma della società».
Questa presa di coscienza non fu istantanea, ma maturò gradualmente grazie ad una spiccata capacità di osservazione e riflessione di cui egli era in possesso.
Da tutto questo prese avvio l’elaborazione di una nuova struttura comunitaria, inizialmente teorica e puramente utopica, che divenne in seguito una concreta realtà: la Città Industriale Olivetti, una comunità definita e corredata da un welfare aziendale considerato ancora oggi all’avanguardia.
Oltre agli edifici adibiti al lavoro, vi era tutta una serie di strutture e di servizi che assicuravano una serena e pacifica vita all’interno della società. I lavoratori godevano di un’elevata considerazione da parte di Olivetti: cos’è, infatti, un imprenditore senza i propri operai che si adoperano costantemente per il bene e la salute dell’azienda, rendendola florida?
Fu, allora, per gratitudine e per adempiere al principio fondamentale della giustizia sociale che investì buona parte dei profitti, ottenuti annualmente, al fine di concretizzare la sua utopia, che si pose come una terza via perseguibile oltre a quelle già esistenti e dominanti del tradizionale individualismo, dettato dal capitalismo fordista, e del collettivismo, alla radice della filosofia marxista e applicato alle grandi imprese statali sovietiche.
Una via, dunque, che è in grado di insegnare ai posteri ancora molto e che ha portato il sito industriale, situato a Ivrea, ad essere inserito dall’Unesco al 54° posto della lista dei patrimoni dell’umanità in Italia.