Dalla Chiesa
Diocesi della Romagna, analisi del primo anno di cammino sinodale
Le Chiese della Romagna hanno “celebrato” insieme il 60esimo dell’avvio del Concilio Vaticano II. È accaduto martedì sera nella parrocchia di Coriano, diocesi di Forlì-Bertinoro, dove si sono dati appuntamento equipe sinodali di tutte le diocesi della Romagna ma anche vescovi, sacerdoti, animatori dei gruppi per fare il punto sul cammino sinodale a partire da un’analisi ragionata di tutte le sintesi diocesane del primo anno di ascolto.
Sessant’anni fa, come ha ricordato il vescovo di Forlì-Bertinoro Livio Corazza, Giovanni XXIII pronunciò, a braccio, il famoso “discorso della luna” che nell’immaginario collettivo diventò l’inizio ufficiale del Concilio. “Per ricordare il santo si è scelta proprio questa data, l’11 ottobre – ha fatto notare il vescovo Corazza -, non la data di nascita o di morte, ma l’inizio del Concilio”. Ed è proprio da lì che si è voluti ri-partire ieri sera, insieme, tra diocesi diverse, in pieno stile sinodale, “perché le domande e le sfide di allora sono quelle che ancora oggi dobbiamo affrontare – ha detto mons. Corazza -, a partire dai tanti pericoli per la pace”.
“Anche stasera la luna si difende”, ha detto il referente dell’equipe sinodale di Forlì, introducendo monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, vicepresidente della Cei e responsabile del cammino sinodale delle Chiese in Italia. E proseguendo nella memoria del Concilio si è scoperto che tutti e tre i relatori, oltre a mons. Castellucci, don Davide Brighi parroco a Forlì e docente all’Issr di Forlì e Gilberto Borghi, docente e pedagogista sono stati tra i bambini ai quali il Papa aveva mandato la sua carezza quella sera di sessant’anni fa. E, come loro, anagraficamente, tanti altri nell’assemblea.
“Il Concilio è cominciato con quella carezza”, ha sintetizzato Castellucci: quindi con una relazione, seppur a distanza, seppur mediata da persone e dalla tv. Una di quelle relazioni che tante relazioni hanno invocato come ponte per la Chiesa del futuro. “Se viviamo il sinodo è perché c’è stata il Concilio – ha proseguito l’arcivescovo di Modena – che ha aperto una visione nuova: l’intera chiesa è popolo di Dio, ciascuno di noi è soggetto non solo oggetto di annuncio e testimonianza”. In tanti, quando Giovanni XXIII annunciò il Concilio, dicendo che lo aveva ispirato lo Spirito, dissero “Che bisogno c’è?”, come in tanti non sentono oggi l’esigenza di confrontarsi in un sinodo universale. “Lo scopo – spiegò il Papa – è quello di mettere a contatto le energie vivificatrici del Vangelo con il mondo”. In questo la Chiesa, ha aggiunto Castellucci, trova il suo posto come “segno e strumento” (dice la Lumen Gentium) dell’amore di Dio, accanto, aggiunge la Gaudium et Spes, “alle gioie e alle speranze degli uomini e delle donne di oggi” che sono quelle dei discepoli di Cristo. “La Chiesa quindi non solo non si mette al centro ma si mette al passo – spiega Castellucci – non come una realtà sopra-elevata ma come parte di mondo che guarda con fede a Cristo, cioè per favorire il contatto tra la Chiesa e il mondo”.
Il sinodo, per come lo guarda papa Francesco, è uno strumento concreto per essere questo tipo di Chiesa: “un’assemblea non solo di vescovi, non di rappresentanti, ma di tutti: una dimensione e uno stile della Chiesa”. Anzi ha detto di più: “La sinodalità è ciò che Dio si aspetta dalla Chiesa”, ha detto il Papa recentemente. Finora, quantifica Castellucci, il sinodo ha coinvolto circa 20milioni di persone nel mondo, 500mila in Italia, con 50mila gruppi e 2000 pagine prodotte. “500mila persone si sono ritrovate per ascoltare la Parola di Dio e le persone e molti chiedono che questo diventi uno stile permanente”. La sfida in questo secondo anno di ascolto è questa: “che la chiesa sia una casa aperta a tutti e non una tana per qualcuno. Anche Gesù ha operato sulla strada”.
Tre le vie, i cantieri nei quali lavorare: quello dei “linguaggi” che permettono di entrare in relazioni con altri mondi, quello delle relazioni per “fare della Chiesa una casa accogliente” e infine quello del servizio, che dev’essere riagganciato all’ascolto.
Una lettura teologico-pastorale delle sintesi diocesane
Ad analizzare il contenuto delle sintesi diocesane del primo anno di ascolto dal punto di vista teologico-pastorale è stato don Davide Brighi della diocesi di Forlì, a partire da due domande chiave: quali son le difficoltà e le opportunità emerse? E quali prospettive future si sono aperte?
“Dalle sintesi emerge anzitutto lo stupore per sentirsi in tanti – ha spiegato Brighi – e il desiderio di mettersi in discussione. L’esperienza sinodale ha sbaragliato una serie di inerzie con due aspetti evidenti: da un lato la riscoperta della complementarietà tra i vari ambiti: parrocchie, vita consacrata, associazioni e movimenti, dall’altra il rischio dell’incomunicabilità tra essi. Ci sono dei muri, tra la Chiesa ed il mondo e all’interno della Chiesa stessa”. La sfida che emerge per i cristiani è quella della ferialità: “presentarsi non per quello che vorremmo essere ma per quello che siamo con l’obiettivo di mescolare la vita ecclesiale con le sfide della vita quotidiana”. Emerge poi come nodo la relazione tra laici e sacerdoti: “A volte dalle sintesi sembra che le attività pastorali siano proprietà personali del parroco – nota Brighi –: una mentalità che credo caratterizzi le attività pastorali soprattutto qui in Romagna e che però buona parte delle giovani generazioni non accetta”. Di caratteristico, d’altro canto, nelle chiese di Romagna c’è “il fascino che le parrocchie hanno nella vita sociale: molte piazze sono animate da questo incontro tra Chiesa e mondo, e questa è una risorsa”.
Su cosa ci chiedono di puntare i contributi dei gruppi sinodali? “Anzitutto sulle relazioni come strumento pastorale – spiega don Brighi – con un chiaro no a frenesie e attivismo per dare radici spirituali alle nostre attività. Poi si sottolinea l’esigenza di pensare che quel che accade nella Chiesa non è di qualcuno ma di tutti”. E poi ci sono i suggerimenti concreti suggeriti per il futuro: ad esempio le “equipe dell’accoglienza” alla Messa (scoperte con le esigenze di igienizzazione e coordinamento per le regole anti Covid sono citate come esperienze da tenere) e le assemblee sinodali, da fare ogni anno, non sono per il sinodo. Infine una nota sui percorsi formativi: per qualcuno “qualificanti ma impegnativi”.
L’ascolto nelle diocesi della Romagna, questione di metodo
Gilberto Borghi ha proposto un’analisi metodologica su come hanno lavorato le varie diocesi nel primo anno di ascolto dei gruppi sinodali. Numeri del coinvolgimento e strumenti utilizzati variano molto: si va dalle 750 persone (stimate) coinvolte nella diocesi di Cesena-Sarsina alle 3770 in quella di Forlì-Bertinoro. Quest’ultima, unica in Romagna, ha utilizzato anche il web per interpellare e raccogliere contributi dalle persone.
“Si va da un quinto a un tredicesimo dei frequentanti – analizza Borghi –. Un dato che deve farci riflettere perché non erano persone da andare a cercare, sono nelle parrocchie, ma non siamo riusciti a coinvolgerli”. La metodologia che ha coinvolto più persone attraverso i gruppi sinodali, è quella della comunicazione mista (in presenza e anche attraverso il web) ma specifica sul sinodo.
“Si rileva un interesse da parte di chi è fuori per quel che avviene nella Chiesa – prosegue nell’analisi Borghi – ma spesso le persone che ci guardano ci trovano incoerenti. Accanto a questo dalle sintesi emerge una partecipazione straordinaria dei laici, che evidenziano la bellezza di essere stati chiamati dalla chiesa a dire ciò che pensano (e questa è una sorpresa per molti). Mentre la categoria che ha faticato di più è stata quella dei sacerdoti. Ma ci sono anche racconti di sacerdoti che si sono spesi con ottime ricadute nella vita comunitaria. E questo mi fa dire che se riusciamo a superare questo gap tra sacerdoti e laici, potremmo mettere in moto potenzialità enormi”
Da parte di molti si sottolinea la bellezza dell’esperienza del confronto e dell’ascolto reciproco attraverso il metodo della conversazione spirituale. “Se ci si pensa anche i tre cantieri di Betania – nota ancora Borghi – non sono sui contenuti ma sui processi. E da questo punto di vista emergono punti di conversione necessari: ‘fare meno ma fare insieme’, ‘una Chiesa che mi chiede come sto’”.
Dall’analisi delle sintesi emerge poi uno sguardo su “come stanno le nostre chiese”, prosegue il docente.
“Guardando a questa questione dall’alto emerge una grande fatica. Le nostre Chiesa fanno fatica a stare, a rimanere, nella realtà. Per non annegare non entriamo in relazione. E questo si traduce o in un intellettualismo o nell’incapacità di capire e usare i linguaggi del mondo. Emerge chiara dalle sintesi la necessità di un linguaggio nuovo per mettersi in comunicazione con la realtà. Anche qui però ci sono esperienze di confine nelle quali prevale l’accoglienza”, che vanno in un’altra direzione.
Emerge anche una grande frammentarietà, “comunità e gruppi sempre più autoreferenziali e chiusi e anche la criticità della relazione tra laici e sacerdoti, come si diceva. Su questo ci sono due atteggiamenti: o quello della collaborazione (il sacerdote comanda e io aiuto) oppure quello della corresponsabilità (tutti siamo soggetti dell’evangelizzazione): pare prevalere il primo, con una centratura eccessiva sul sacerdote ma c’è anche l’altro. Emerge anche la tendenza di alcuni laici a voler vivere la Chiesa come corte del prete”.
Infine, a livello di fede personale, alcune sintesi evidenziano “una scarsa cura effettiva della spiritualità: la vita di fede sembra aver perso il senso del mistero. Le nostre comunità faticano a vivere una fede incarnata. In questo l’identità cristiana può diventare un totem da conservare che ci dica chi siamo” ma che non parla alla vita. Sono raccontate anche esperienze di comunità che riescono a dare pane spirituale per i “denti” di tutti.