Dalla Chiesa
San Serafino da Montegranaro
San Serafino da Montegranaro, frate cappuccino.
Nacque a Montegranaro, nel 1540. Montegranaro è un paesello dell’allora provincia di Ascoli Piceno (dal 2009 passa sotto la nuova provincia Fermo). Risulta difficile risalire al numero di anime che abitavano a quei tempi. Fu battezzato con il nome di Felice, e lo fu di fatto anche quando le tradizioni e le costumanze cappuccine di allora imponevano al neofita, colui che chiedeva di farsi frate, un nome nuovo. Dobbiamo fare mente locale ed è importante sapere che il nuovo ordine dei Cappuccini era stato riconosciuto solo 15 anni prima della nascita del nostro santo. Nato secondogenito di quattro figli in una famiglia povera ma cristiana, da papà Gerolamo Pampiani e mamma Teodora Giovannuzza. Iniziò a darsi da fare per aiutare la famiglia badando greggi di pecore. Il papà lavorava da muratore. Morì presto gettando il dolore nella famiglia di Felice che a 16 anni andò a lavorare con il fratello più grande di lui, Silenzio Pampiani che lavorava già con il loro padre. “Silenzio e Felice”, un connubio tra un sostantivo e un aggettivo che già svelava non pochi segni sull’avvenire del giovincello. Accadde un giorno che mentre Felice era su di una impalcatura in un momento di pausa sentì la voce di una ragazza della casa che leggeva ad alta voce libri santi. Fu la scintilla che accese il fuoco di Dio nel cuore di Felice. Dio lo voleva tutto per sé. Fu la ragazza a indicargli il convento dei cappuccini. Si presentò al convento di Tolentino. Dopo qualche indecisione, fu accompagnato al Noviziato di Jesi. Un abito nuovo, il saio di san Francesco, un nome che è tutto un programma: fra Serafino da Montegranaro.
Dopo la professione fu mandato nei vari conventi della Provincia religiosa della Marca (questo era l’antico nome). Purtroppo era inadatto e incapace di fare per bene ciò che l’obbedienza gli chiedeva e i confratelli, soprattutto il Superiore non gli mancò rimproveri e umiliazioni. Fu spostato da un convento all’altro. Ma lui non se la prendeva più di tanto, accettava tutto sorridendo e per amore del suo Signore, offrendo a Lui e alla Madonnina le sue incapacità e indolenze: “Non ho nulla, solo il crocifisso e la corona del rosario; ma con questi spero di giovare ai frati e di farmi santo!”. La sua forza era nella preghiera e nella contemplazione. Il suo volto si illuminava proprio come un angelo soprattutto quando tuonava la voce di un rimprovero. Silenzio, Felice e Serafino. Il programma si è compiuto. Cominciò a girare per i paesi in cerca di carità, facendo il questuante o frate cercatore e cominciò a farsi conoscere. Avvennero prodigi e miracoli. Senza accorgersene era una fonte inesauribile di grazie: bastava un bacio al suo mantello, o una sua carezza o invocare il suo nome: le malattie scomparivano, casi disperati si risolvevano e poi tutto ciò che toccava prendeva vita o aumentava: quanto pane ha distribuito da un pezzo solo. Tutta carità del Signore. Non aveva tempo per sé. Appena rientrava in convento correva da Gesù Eucaristia per presentargli le preghiere richieste dalla gente comune. I malati, i fanciulli, gli sposi, le famiglie e le vocazioni. Non c’era tempo per riposare. A volte si addormentava davanti al Santissimo. All’alba appena servito messa prendeva il portone e giù in città a fare del bene. La gente lo ritraeva così: “Era sempre spettinato e la barba arruffata! A fra Serafino gli puzzava l’alito, era sciancato e zoppicava, e la tonaca? Piena di pezze e buchi perché la gente di nascosto gli tagliava pezzi del saio. Tra le fessure si vedeva il cilicio e si lamentava (sottovoce) per il male alla schiena, tanto che proibiva a chiunque di toccargliela. Si venne a sapere che il motivo erano le sferzate della disciplina, il nome dato alla penitenza che usava tra i frati. Percuotersi la schiena con una frusta di catenelle di metallo meditando la Passione del Signore!”. Da qualche tempo non si vedeva più in giro e allora la gente cominciò a capire che il “santino”, così amavano chiamarlo, stava per riconsegnare l’anima a Dio. La Madonna e san Francesco lo vennero a prendere in un pomeriggio di ottobre. Era suonata da poco l’ora sesta. Fra Serafino non c’era più. Era il 12 ottobre del 1604, ad Ascoli Piceno. La voce si sparse in giro. Furono i bambini, i fanciulli da lui tanto amati, in tutte le città e i paesi in cui il nostro frate cappuccino aveva fatto del bene a gridare: “È morto il santino. È morto Serafino!”.
Nel 1729 papa Benedetto XIII lo fece beato e poi e Clemente XIII lo canonizzò il 16 luglio 1767 giorno dedicato alla Beata Vergine Maria del monte Carmelo.