Dalla Chiesa
Annunciazione, tra nove mesi è Natale
Di solito le date delle celebrazioni liturgiche attingono a due fonti possibili: o a festività precedenti al Cristianesimo, che vengono sostituite in chiave apologetica dal nuovo e autentico culto, oppure, nel caso dei Santi, a eventi decisivi della vita queste persone – in particolare il più decisivo di tutti, e cioè la morte.
La data odierna deriva invece dal calcolo più ovvio, naturale, banale: posto che Gesù sia nato il 25 dicembre (e sempre più studi sembrano confermarlo, alla faccia dei fan del Sol Invictus, che invece ad oggi sembra sia venuto dopo), nove mesi prima della sua nascita è il 25 marzo. Nove mesi occorrono a un bambino per formarsi nel grembo materno, e quindi oggi iniziamo il conto: tra nove mesi è Natale.
Natale… una parola che fino a due anni fa avrebbe evocato in noi anzitutto una calorosa anticipazione di gioia, festosità, tradizioni familiari, amicizia. Ad oggi, la prima cosa che essa suscita è l’incertezza: “Riuscirò a vedere i miei, quest’anno?” “Ce la faremo?” “Ci sarà ancora il Covid, o l’avremo finalmente superato?”
Lo stupore divertito di considerazioni analoghe in tempi precedenti (“Oh, pensa, tra nove mesi è Natale!”) ha lasciato il posto alla paura di vedere una Pasqua, un’estate, un (ipotetico) riavvio del tempo della scuola e del lavoro e, ovviamente, il Natale ingoiati dal baratro di una pandemia invincibile, che come il cattivo di Star Wars ritorna in forme sempre più maligne quando ormai sembrava fosse stato sconfitto per sempre.
La mente corre a un Natale fatto di sfumature di rosso che non c’entrano col vestito di Babbo Natale! E parte ancora una volta il flusso di pensieri: spostamenti, visite ai parenti (ma non più di uno), bambini, contagi, contatti, “Si potranno fare i pranzi?”, ecc. ecc.
Pensieri paranoici di un’umanità segnata dalla pandemia, su un Natale segnato dalla pandemia, in un anno liturgico segnato dalla pandemia, visto che anche questa Pasqua non si prospetta proprio serena. Questa è la storia, Signore: un gran casino. Prendere o lasciare. Per nostra fortuna, hai preso.
Per nostra fortuna, dal letame delle umane vicende (allora si trattava dell’invasione di una super-potenza straniera che voleva globalizzare il mondo) si è sollevato un Giglio che ha detto “Sì”, e Tu sei venuto tra noi. E noi questo vogliamo festeggiare, così come possiamo.
D’altronde il nostro non è un Dio abbarbicato nella sua alterità, tale da pretendere la conservazione dei suoi riti come sono per un qualche puntiglio divino. Al contrario, accetta di manifestarsi a noi così come noi possiamo riceverlo, noi poveri uomini e donne del tempo della pandemia – noi poveri uomini e donne del tempo in quanto tale, cioè di un continuo divenire imprevedibile che nell’attuarci pure ci consuma, e ci argina dappertutto quale limite invalicabile. Oggi è la pandemia, domani chissà.
Oggi quindi se e quando si celebra in chiesa lo si fa con mille restrizioni, e insieme al pane, al vino e all’acqua sembra che il gel disinfettante per le mani sia richiesto come materia per il sacrificio, e la mascherina sia un nuovo paramento. Ma c’è anche chi ancora in chiesa non ci può entrare, e di nuovo sperimenterà un vuoto che dovrà riempire, se lo vorrà, con un di più di preghiera personale nella clausura forzata.
Eppure proprio questo è l’incarnazione: accettare liberamente di farsi carico del limite ineluttabile, farsi sballottare qua e là insieme a chi è sballottato, venire graffiati e scalfiti e logorati per il semplice fatto di esserci, in questo grande caos che è l’esistenza.
Questi nove mesi di gestazione porteranno l’umanità a tempi più sereni? Difficile prevederlo.
Una cosa però ci è data per sicura dalla festa odierna: Dio ha scelto di condividere con noi i travagli di questo tempo inquieto, e vuole che la sua Chiesa celebri i suoi riti al ritmo di queste vicissitudini, così che anche i momenti più duri della vita, da Lui assunti nella sua Incarnazione, divengano liturgia autentica, un’offerta viva per sempre iscritta nella memoria di Dio.