Dalla Chiesa
Papa Francesco: incontro clero romano, no a “deriva autoritaria soft”. “La grande tentazione del pastore è circondarsi dei suoi”
“Al giorno d’oggi sembra di respirare un’atmosfera generale – non solo tra di noi – di una mediocrità diffusa, che non ci consente di arrampicarci su giudizi facili”. Lo scrive il Papa, nel discorso preparato per l’incontro con il clero romano, letto a San Giovanni in Laterano dal cardinale vicario, Angelo De Donatis. “Molta amarezza nella vita del prete è data dalle omissioni dei Pastori”, la tesi di Francesco: “Tutti facciamo esperienza di nostri limiti e carenze. Affrontiamo situazioni in cui ci rendiamo conto che non siamo adeguatamente preparati… Ma salendo verso i servizi e i ministeri con maggiore visibilità, le carenze diventano più evidenti e rumorose; ed è anche conseguenza logica che in questo rapporto si giochi molto, nel bene e nel male”. “Non si allude qui alle divergenze spesso inevitabili circa problemi gestionali o stili pastorali”, precisa il Papa: “Questo è tollerabile e fa parte della vita su questa terra. Il vero problema che amareggia non sono le divergenze – e forse nemmeno gli errori: anche un vescovo ha il diritto di sbagliare come tutte le creature!- quanto piuttosto due motivi molto seri e destabilizzanti per i preti”. Prima di tutto, spiega Francesco, “una certa deriva autoritaria soft: non si accettano quelli tra di noi che la pensano diversamente. Per una parola si viene trasferiti nella categoria di coloro che remano contro, per un ‘distinguo’ si viene iscritti tra gli scontenti. La parresia è sepolta dalla frenesia di imporre progetti. Il culto delle iniziative si va sostituendo all’essenziale: una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti. L’adesione alle iniziative rischia di diventare il metro della comunione. Ma essa non coincide sempre con l’unanimità delle opinioni. Né si può pretendere che la comunione sia esclusivamente unidirezionale: i preti devono essere in comunione col vescovo… e i vescovi in comunione con i preti: non è un problema di democrazia, ma di paternità”.
“Prudenza” ed “equità”, i requisiti chiesti ai Pastori, come raccomanda San Benedetto nella sua Regola: “L’abate, quando deve affrontare una questione importante, consulti la comunità intera, compresi i più giovani”, “la decisione ultima spetta solo all’abate, che tutto deve disporre con prudenza ed equità”. “Equità”, puntualizza il Papa, “vuol dire tenere conto dell’opinione di tutti e salvaguardare la rappresentatività del gregge, senza fare preferenze”. “La grande tentazione del pastore è circondarsi dei ‘suoi’, dei ‘vicini’; e così, purtroppo, la reale competenza viene soppiantata da una certa lealtà presunta, senza più distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata”, il monito di Francesco: “Questo fa molto soffrire il gregge, che sovente accetta senza esternare nulla”. “In questo tempo di precarietà e fragilità diffusa, la soluzione sembra l’autoritarismo”, fa notare il Santo Padre: “Nell’ambito politico questo è evidente. Ma la vera cura – come consiglia San Benedetto – sta nell’equità, non nella uniformità”.
“L’amarezza – che non è una colpa – va accolta. Può essere una grande occasione. Forse è anche salutare, perché fa suonare il campanello d’allarme interiore: attento, hai scambiato le sicurezze con l’alleanza, stai diventando ‘stolto e tardo di cuore’”. Lo spiega il Papa, nel discorso preparato per l’odierna liturgia penitenziale con il clero romano, letto nella basilica di San Giovanni in Laterano dal cardinale vicario, Angelo De Donatis. “Un sottile nemico che trova molti modi per camuffarsi e nascondersi e come un parassita lentamente ci ruba la gioia della vocazione a cui un giorno siamo stati chiamati”: così il Papa definisce l’amarezza, soffermandosi sulle tante “amarezze” che possono insinuarsi nella vita di un prete. “Guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarsi con esse ci permette di prendere contatto con la nostra umanità, con la nostra benedetta umanità”, esordisce Francesco sulla scorta di Ireneo di Lione: “E così ricordarci che come sacerdoti non siamo chiamati a essere onnipotenti ma uomini peccatori perdonati e inviati”. “C’è una tristezza che ci può condurre a Dio”, la tesi del Papa: “Accogliamola, non ci arrabbiamo con noi stessi. Può essere la volta buona”. Anche San Francesco, del resto, lo ha sperimentato, e nel suo testamento ce lo ricorda: “L’amarezza si cambierà in una grande dolcezza, e le dolcezze facili, mondane, si trasformeranno in amarezze”. “È il Signore che ci ha delusi oppure noi abbiamo scambiato la speranza con le nostre aspettative?”, il primo interrogativo da porsi: “La speranza cristiana in realtà non delude e non fallisce. Sperare non è convincersi che le cose andranno meglio, bensì che tutto ciò che accade ha un senso alla luce della Pasqua”.
“Che differenza c’è tra aspettativa e speranza?”, si chiede Francesco: “L’aspettativa nasce quando passiamo la vita a salvarci la vita: ci arrabattiamo cercando sicurezze, ricompense, avanzamenti… Quando riceviamo quel che vogliamo sentiamo quasi che non moriremo mai, che sarà sempre così! Perché il punto di riferimento siamo noi”. La speranza, invece, è “qualcosa che nasce nel cuore quando si decide di non difendersi più”: “Quando riconosco i miei limiti, e che non tutto comincia e finisce con me, allora riconosco l’importanza di avere fiducia”. “Diffidare di sé, confidare in Dio”, l’itinerario da compiere: . “Spero non quando non c’è più nulla da fare, ma quando smetto di darmi da fare solamente per me. La mia vita è gustosa se faccio Pasqua, non se le cose vanno come dico io”.