Diocesi
L’eredità di don Giuseppe Calandrini
Don Giuseppe è stato il nostro prete. Lo posso dire. E con me lo possono attestare quanti con lui sono cresciuti negli anni ’70 e ’80, a Bulgarnò e a Sant’Angelo.
Adesso che è morto, la notizia ci ha colti impreparati (ma si è sempre impreparati davanti alla morte), capiamo ancora meglio, una volta di più, quanto questo prete sia stato importante per me, per tutti noi.
Sulle chat di whatsapp cominciano i ricordi. Ne affiorano di tutti i tipi. Dal giorno dell’ingresso in parrocchia, nell’ormai lontanissimo 1972, fino ai campi scuola sulle Dolomiti. Là, su quei monti a lui così cari, ci ha avviati alla passione che ancora coltiviamo e che abbiamo trasmesso ai nostri figli. Salire in cima per capire che la vita è fatica, ma è anche una grandissima soddisfazione. Come quando si arrivava in vetta al Piz Boè o allo Scalieret. Oppure quando per primo ci avviò alla conquista della nostra prima ferrata, sui 3000 metri dell’Antermoia, nel gruppo del Catinaccio, in Trentino.
Ci ricordiamo tutti benissimo. Adesso abbiamo i capelli grigi, ma quel prete allora giovane e scattante come un capretto, ci invitava ad alzare lo sguardo e ad ammirare quanto ci è stato donato. Ci fece comprendere come fosse importante il cammino, dietro una guida sicura. In quello don Giuseppe, per tanti Fafin, era rigoroso. Non ci si poteva affidare al caso. Bisognava affidarsi e fidarsi a chi aveva esperienza di montagna e di vita. Era l’autorità, una parola e una figura con cui siamo cresciuti. Oggi gli darebbero del matto, ma noi capimmo già allora, non sempre senza fatica, che se uno ti vuole bene, la realtà te la deve raccontare per quella che è. Niente finzioni, nessun frainteso: la vita è bella e va vissuta in pieno, assieme, se possibile. Ma sempre col piede schiacciato sull’acceleratore, per dare tutto quello che si ha.
La parrocchia è stata per tanti di noi la nostra seconda casa. Spesso anche la prima. Il don ci aveva trasmesso il fuoco della vita comunitaria. I suoi versetti preferiti, che ha scolpito nei nostri cuori, erano quelli tratti dal secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, 41-47. Li sappiamo a memoria, ovviamente. Come conosciamo in gran parte il salterio, lui che ci ha avviati alla preghiera delle Lodi, tutti i giorni, prima di prendere il pullman per andare a scuola a Cesena, e dei Vespri, anche quelli tutti i giorni, in chiesa, abbandonando studio e amici, alle 18, sempre fedeli.
E poi la Parola di Dio, un brano ogni giorno, un libro al mese, di continuo, senza stancarsi mai. La preghiera personale e la direzione spirituale. Don Giuseppe era un prete tosto, giovane per noi allora, ma per nulla semplice. Anche severo. Ma ci voleva un bene immenso. Ha segnato le nostre vite, per sempre. Le ha ancorate alla roccia. Ci ha seguito sempre negli anni, anche se gli incontri si sono diradati. Ogni volta voleva sapere di noi, dei nostri figli e dei nostri amici. Di tutti ricordava il nome, uno per uno.
Il don rimane per noi una pietra miliare. Ci ha insegnato a guardare con favore le varie esperienze ecclesiali, a cominciare da quella del movimento fondato da Chiara Lubich. Ci portò più volte a Loppiano. Poi ci fece incontrare l’Azione cattolica e tanti gruppi parrocchiali a noi vicini. Ci fece conoscere tanti ragazzi e tanti preti (tra i tanti, ricordo padre Natale, padre Lino Ruscelli, don Ermenegildo Manicardi, don Onerio Manduca, don Primo Brighi, don Rino Casali) che ci venivano a predicare ritiri ed esercizi spirituali. Con lui si faceva silenzio sul serio, anche per giornate intere. Ci fece andare un po’ ovunque, sempre assieme. Era una vera e propria vita comunitaria, la nostra. Quella che poi ci mancò, negli anni in cui formammo le nostre famiglie e un po’ ci perdemmo di vista.
Ci siamo sempre tenuti uniti nella preghiera reciproca, a vicenda, come lui ci insegnò. Ogni giorno, un ricordo per nome e un’invocazione a nostro Signore, nella preghiera personale.
Non esiste il tempo libero, ci insegnò, anche in maniera fin troppo austera. Esiste il tempo impegnato. Un motto e un impegno che ha condizionato, in positivo, la mia vita e quella di tanti che con lui hanno condiviso un tratto di strada.
Ora siamo qui che lo ricordiamo. E mi pare di vederlo che ci segue con il suo sguardo paterno. Segue i suoi ragazzi. Noi per lui siamo sempre stati così: i suoi ragazzi. Ci voleva un bene immenso, lo abbiamo sempre saputo e lo abbiamo sempre avvertito. Questo ricordo buttato giù al volo vuole essere solo un modo molto semplice per dirgli grazie. Un grazie immenso, come in vita gli abbiamo sempre manifestato. Ora è il momento di renderlo anche pubblico.
Caro don, continueremo a ricordarci a vicenda nella preghiera reciproca.
(Foto Armando Brigliadori)