Ciclone Idai in Mozambico. Tre missionari veneti a Beira: “Primi segni di rinascita ma l’emergenza è ora il colera”

Sono stati per una notte terribile e interminabile proprio nell’occhio del ciclone. Hanno visto case e chiese distrutte. Erano tra la gente, nelle povere baraccopoli della periferia di Beira, in Mozambico: li hanno visti ringraziare Dio per avere salva la vita, nonostante avessero perso tutto. Oggi, a quasi venti giorni dal passaggio del ciclone Idai su Mozambico, Zimbabwe e Malawi, don Maurizio Bolzon, 50 anni, fidei donum della diocesi di Vicenza, a Beira e due confratelli veneti, iniziano a vedere i primi segni tangibili della resurrezione del popolo mozambicano. Anche se l’emergenza è ora il colera: “Sono già 300 i morti accertati. Non è un’epidemia ma non c’è da scherzarci”.

Una parrocchia appena ricostruita dalla gente. Una delle tre parrocchie che segue, quella di Santos Anjos  (Santi Angeli custodi) è stata completamente rasa al suolo dal passaggio del ciclone Idai, la notte tra il 14 e il 15 marzo, con venti a più di 200 km orari che hanno distrutto tutto , provocando 447 vittime e 1.500 feriti. “La prima domenica dopo il ciclone non abbiamo potuto fare niente perché diluviava e la chiesa era un cumulo di macerie – racconta al Sir don Maurizio -. La seconda domenica abbiamo pulito sotto il sole. Quando ieri sono arrivato per celebrare la messa l’ho trovata piena di persone che mi aspettavano: avevano ricostruito tutto con pali, teloni e foglie degli alberi di cocco. Pregare di nuovo sotto un tetto è stata una grande gioia e una emozione fortissima, che ricorderò per tutta la vita…. Per me ha significato, a metà Quaresima, che una delle mie parrocchie stava già risorgendo. E’ l’immagine di cosa è Beira in questo momento: un desiderio di resurrezione fortissima,  a tutti i livelli”. “Sono persone che non si lasciano abbattere ma ripartono e rialzano la testa. E vivono guardando solo all’essenziale”.

Tre veneti a Beira (più il vescovo). L’amore per l’Africa e per la sua gente trapela dalle parole del missionario. E’ a Beira da due anni, prima è stato a lungo in Camerun, dove la missione è stata chiusa per l’arrivo nella zona del gruppo fondamentalista Boko Haram. Ora gestisce l’unità pastorale “Santissima Trinità dell’aeroporto” formata da quattro parrocchie, insieme a don Giuseppe Mazzocco e don Davide Vivian. Si tratta di una collaborazione tra la diocesi di Vicenza e la diocesi di Adria-Rovigo. Tre preti fidei donum accolti dall’arcivescovo di Beira don Claudio Dalla Zuanna,  vicentino della Congregazione dei Dehoniani.  Tutti veneti.

Una casa in affitto nel quartiere dell’aeroporto. Vivono in una casa in affitto tra la gente povera di uno dei tanti bairros periferici che circondano l’antico centro di Beira, città di circa 500.000 abitanti. E’ la zona intorno all’aeroporto. La notte del ciclone i tetti di lamiera sono volati via, i pali della luce in terra, gli alberi si sono abbattuti sulle case, hanno fatto cadere muri. Nel loro quartiere è morta una intera famiglia di 4 persone. “Nei giorni successivi la zona era irriconoscibili. In più continuava a piovere. La metà delle case sono fatte di terra e con la pioggia si scioglievano, così il materasso, il tavolo…Tutto era inutilizzabile, immerso nella fanghiglia. Dovevamo aspettare di poter stendere le cose ad asciugare. Era una scena un po’ strana però mi colpiva la grande forza che tutti manifestavano. E’ l’esperienza del sopravvissuto, un sentimento che trapelava con chiunque parlassi. Si sentivano fortunati: anche se avevano perso tutto erano ancora vivi”.

L’emergenza del momento: il colera. I momenti più difficili sono stati nei giorni successivi: senza elettricità né acqua potabile, con banche e negozi chiusi, poi riaperti con prezzi alle stelle. La gente è andata a cercare acqua nei pozzi privati e questo ha provocato l’emergenza del momento: il colera. “L’acqua piovana finiva nei pozzi e le persone, compresi i bambini, la bevevano. Questo ha causato dissenteria e diarrea, che è degenerata in vari casi di colera”, racconta il missionario. Il governo del Mozambico ha stipulato un contratto con Medici senza frontiere e la Chiesa ha messo a disposizione un terreno dove è stato installato un ospedale da campo per  trattare i primi casi. “Finora non si sta parlando di epidemia ma sono già 300 i morti accertati. Si spera che non ci siano contagi più seri. Comunque non è da scherzarci”. La città di Beira sta provando a rialzarsi. “Basta fare quattro passi e ci si rende conto che la gente sta lavorando per cercare di aggiustarsi la casa – spiega -. Una delle difficoltà è stata l’interruzione della sola strada che collega Beira al resto del Paese. Per due settimane siamo stati isolati e questo ha bloccato l’arrivo di alimenti e materiali via terra per la ricostruzione. Ora stanno arrivando. Credo che Beira sarà un ottimo mercato per uno stuolo di cinesi, indiani, arabi che stanno facendo soldi in queste zone. Il ciclone sarà per loro una fortuna ulteriore”.

Danni enormi a tutte le strutture ecclesiali. La sfida della ricostruzione.  Il vescovo di Beira ha chiesto a don Maurizio ed ad altre persone di costituire una commissione diocesana per l’emergenza. Tramite la Caritas nazionale e Caritas di altri Paesi – tra cui Germania, Inghilterra, Usa e Italia – stanno arrivando alimenti e beni di prima necessità.  Nel frattempo la diocesi di Vicenza ha messo a disposizione un conto corrente, gestito dall’arcidiocesi di Beira, per far confluire lì tutti gli aiuti. L’arcidiocesi è enorme –  “grande come Veneto, Lombardia e Piemonte messi insieme” –  e nell’area colpita dal ciclone vi sono circa 25 parrocchie: “Tutte hanno avuto danni enormi: le case parrocchiali, le case delle religiose, le scuole, i centri di salute e le sale della comunità”. La sfida, per l’arcidiocesi, è cercare di dare risposte alle tante richieste e necessità e pensare alla ricostruzione. “Sappiamo bene che le luci della ribalta durano molto poco – ammette don Maurizio -. Gli organismi internazionali distribuiscono aiuti e sono preziosissimi. Però sappiamo che sarà una presenza limitata nel tempo”. “Nel territorio rimarrà solo la Chiesa.  Dobbiamo pensare ad un accompagnamento a lungo termine, per continuare a camminare accanto al popolo mozambicano”.