Ricomporre i cocci
Ricomporre i cocci La testimonianza
Lungo la via sotto casa le auto non si vedono più. Sono sommerse dall’acqua. Un’immensa distesa di acqua marrone e fangosa, che copre tutto e continua ad alzarsi, minuto dopo minuto. Si vedono invece i gommoni dei soccorsi, instancabili, che fanno avanti e indietro a recuperare le persone rimaste incredule agli ultimi piani degli edifici. Ogni tanto un allarme – sarà di un’auto? O della vicina scuola di musica? – rompe quel silenzio di stupore. È questo il drammatico risveglio che ha accompagnato, come me, tanti altri cittadini di Faenza, una delle città più colpite dall’alluvione.
In poche ore il livello del fiume Lamone si è alzato di dieci metri, mettendo in ginocchio un intero quartiere. Alcuni sono riusciti a fuggire in tempo. Altri, i più – le comunicazioni istituzionali hanno latitato: in certe aree non è arrivato nessun allarme ai residenti – quando si sono svegliati si sono trovati di fronte a quella distesa immensa di acqua sporca di fango che continua a crescere. Si accende l’interruttore, ma la luce non arriva. Con le piogge è arrivato anche un freddo pungente: per tutta la mattina sto col giubbotto.
Chi ha la fortuna di vivere ai piani alti degli edifici può decidere di rimanere in casa e aspettare – perché l’acqua non starà lì per sempre, giusto? — Si tratta di alcune persone anziane. Il cibo in casa c’è e si centellina la batteria del cellulare per restare in contatto coi parenti, in attesa che tutto sia finito.
Altri, come me, decidono di sfollare. Forse non solo per esigenze pratiche – il freddo, l’assenza di elettricità, la paura ecc… – ma perché sentirsi bloccati, impotenti, in quella situazione fa male. Maledettamente male. Lo abbiamo sperimentato con la pandemia.
Le auto non si vedono più, ma si vede un gommone. La persona a bordo mi urla con accento veneto se voglio evacuare. Non ci penso due volte. Corro a chiamare gli altri residenti del mio condominio: nessuno deve restare solo e il prossimo gommone chissà quando passerà. Il giorno dopo le strade dalle quali l’acqua si è ritirata emanano un odore di fango che ormai si è attaccato alle persone, come un marchio.
Emergenza è una delle parole che ho sentito dire più spesso negli ultimi anni. L’emergenza pandemica. Quella ucraina. Quella energetica. E ora questa. Un uso un po’ troppo frequente per una parola che dovrebbe rappresentare l’eccezionalità. Penso a questo mentre senza sosta rimetto insieme i fragili cocci di tutto quello che abbiamo perso in una notte.