Guerra e informazione. Non dimenticare Peter e Marina

Guerra e informazione. Non dimenticare Peter e Marina «Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità»

Ricordate Peter Arnett? Era il 1991, prima guerra del Golfo, e lui fu l’unico giornalista a documentare, in diretta da Baghdad, l’inizio dei bombardamenti americani sulla capitale irachena. Nel 1966 aveva vinto il premio Pulizer per le sue corrispondenze dal Vietnam, ma fu lo scoop di venticinque anni dopo per la CNN a dargli celebrità.

Fu Arnett a inventare, di fatto, la copertura televisiva della guerra in tempo reale. Il suo nome è entrato così nella storia del giornalismo, pochi sanno però che nella sua carriera ha collezionato, oltre ai riconoscimenti, una lunga serie di licenziamenti dai grandi network internazionali. Non sempre a un giornalista è concesso dire quello che vede sul campo di battaglia.

Le cose andarono diversamente dodici anni dopo, nel 2003, con la seconda guerra del Golfo, quando nacque la figura dell’inviato embedded, ossia al seguito delle truppe, letteralmente “incorporato” ai militari. Con i “vantaggi” e le limitazioni conseguenti.

È del 1917, oltre un secolo fa, la celebre osservazione del senatore americano Hiram Johnson: «Quando scoppia la guerra, la prima vittima è la verità», così spesso ripetuta nelle ultime settimane.

Una frase che può applicarsi ad ogni conflitto, senza eccezioni. Basti vedere ciò che sta succedendo attorno all’invasione russa dell’Ucraina. Giornalisti minacciati (e vittime dei bombardamenti), fake news e propaganda, immagini manipolate e dati censurati, perfino leggi speciali per controllare l’informazione. È un classico dei tempi di guerra: il linguaggio manipolato e “ripulito”.

Nel complesso sistema di comunicazione dei conflitti, un ruolo crescente spetta ai social network. Non a caso la Russia ha bloccato l’accesso a quelli occidentali.

Facebook e soci, però, non sono solo finestre aperte direttamente sui luoghi dove si consuma il dramma, ma anche strumenti di disinformazione e generatori di “bolle” dove si finisce rinchiusi in “camere dell’eco” a nostra immagine e somiglianza.

Per i media tradizionali, in cerca di notizie di prima mano, oltre a costituire una preziosa fonte a cui attingere, i social complicano anche la vita: sono difficili da vagliare e, non raramente, costringono a inseguire.

Dal punto di vista mediatico, il conflitto in Ucraina un simbolo ce l’ha già. È Marina Ovsyannikova, la giovane dipendente del Primo Canale russo apparsa in video per qualche secondo con un cartello contro la guerra, proprio alle spalle dell’ignara conduttrice del telegiornale. Per il momento se l’è cavata con una multa, ma la partita è ancora lunga.