Se tutto è digitale resta solo lo stupore
Se tutto è digitale resta solo lo stupore Gli studi e i contributi sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia digitale, nel mondo di oggi e ancor più in quello del prossimo futuro, sono ormai sterminati. Nella varietà dei punti di vista e degli orientamenti suggeriti, colpisce notare la prevalenza dell’approccio umanistico su quello tecnico
Gli studi e i contributi sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia digitale, nel mondo di oggi e ancor più in quello del prossimo futuro, sono ormai sterminati. Nella varietà dei punti di vista e degli orientamenti suggeriti, colpisce notare la prevalenza dell’approccio umanistico su quello tecnico e, in particolare, di un tema ricorrente, riguardante la bellezza e l’interiorità.
Lo si trova, ad esempio, in due pubblicazioni giunte in libreria di recente. La prima è “L’estetica dell’intelligenza artificiale” dello scrittore e docente di “digital humanities” Lev Manovich. La tesi di fondo si muove attorno alla crescente omologazione culturale portata dagli algoritmi, la cui influenza si estende ormai anche sul lavoro creativo e sull’elaborazione dei gusti e degli ideali estetici diffusi. Vi sono piattaforme in grado di realizzare opere d’arte e comporre brani musicali di ottima fattura. Instagram detta ormai gli stili e i contenuti delle nostre immagini fotografiche e video, tanto che i singoli profili personali finiscono per assomigliarsi in modo impressionante. Ma se anche nel campo della creatività il grosso del lavoro è fatto dall’intelligenza artificiale, a noi cosa resta? Preservare la varietà e accrescere la diversità culturale, risponde Manovich.
Mentre danno forma all’immaginazione collettiva dell’umanità, i computer non capiscono ciò che stanno facendo. Eseguono delle operazioni impostate per loro. Non potranno mai sperimentare lo stupore e la bellezza, ma solo simularli. È la meraviglia lo spazio che ci resta e ci differenzia dalle macchine.
Un appello alle nostre facoltà interiori e non puramente razionali lo si trova anche nelle pagine di Francesco Varanini, autore di un saggio penetrante: “Le cinque Leggi bronzee dell’era digitale. E perché conviene trasgredirle”. L’autore mette a confronto l’homo digitalis, quello che accetta la superiorità della tecnologia e si riduce a un utente passivo e obbediente, e l’homo sapiens che ai numeri antepone la narrazione e la ricerca del senso delle cose e di sé stesso nel mondo. Senza rinunciare al progresso, egli considera fonti di conoscenza non solo la logica e la matematica, ma anche la musica, la poesia, la letteratura. Tutte vie che fanno appello non solo alla ragione, ma chiamano in causa il desiderio e la coscienza. Ben venga la conoscenza e la pratica delle “leggi” che regolano la scena digitale, conclude Varanini. Ma con la chiara avvertenza dei rischi per la nostra libertà e il coraggio di saper anche trasgredire.