La mafia oggi condiziona le leggi
La mafia oggi condiziona le leggi Dopo la morte di Totò Riina ci si interroga sulla presenza delle cosche. Il professor Savagnone mette in guardia da chi agisce nell’ombra.
In questi ultimi giorni si è fatto un gran parlare di Totò Riina. Anche noi sul nuovo sito del Corriere Cesenate ne abbiamo raccontato cercando di fornire qualche chiave di lettura e tentando di spiegare le ragioni portate dalla Cei circa la non possibilità di funerali religiosi pubblici. D’altronde il boss dei boss come è stato definito non si è mai pentito del male compiuto. Anzi, da dietro le sbarre ha provato fino all’ultimo di minacciare servitori dello Stato e di guidare il malaffare in Sicilia e oltre.
In argomento mafia e Riina ho letto due interventi diversi tra loro, ma ugualmente efficaci, su Avvenire di martedì scorso. Uno è del professor Giuseppe Savagnone, che qui citerò, e l’altro del vescovo di Noto (Siracusa) Antonio Staglianò, di cui consiglio la lettura.
“La mafia – scrive Savagnone – è innanzitutto una cultura, uno stile di vita, un costume, la cui natura più profonda non consiste nell’uso della violenza fisica, ma nel disprezzo del bene comune e nella strumentalizzazione dello Stato e degli altri enti, come la Regione siciliana, che istituzionalmente hanno il compito di perseguirlo.
Perciò la mafia – nel senso che si è appena detto – continua a tenere in ostaggio la Sicilia anche nel tempo del declino della criminalità organizzata di Cosa Nostra. In realtà il suo potere è tale che non ha neppure bisogno di violare le leggi, perché è in grado di condizionare chi le fa”. Quindi, che ci piaccia o meno, la mafia oggi non ha più bisogno di infrangere le leggi, perché, come scrive a chiare lettere il professore, è in grado di indirizzare chi legifera.
Terribile questa affermazione. Sì, perché se da un lato è tremendo avere a che fare con chi compie stragi come quella di Capaci dove morirono Giovanni Falcone e quanti erano con lui, d’altro canto è vero anche che un nemico, seppur difficile da scovare, è quanto meno identificabile. Ma fra chi lavora dietro i banchi delle istituzioni di cui tutti dovremmo fidarci come si fa a individuare quanti sono manovrati dalla mafia?
Ma la mafia, avverte Savagnone “è una cultura, uno stile di vita, un costume”. E potrebbe non essere lontana neppure da noi. È quel modo di essere che non ti fa vedere ciò che si dovrebbe vedere. Che fa tacere quel che si dovrebbe dire. È quel dire e non dire, quel fare finta di nulla, quell’accondiscendere chi conta che rischia di renderci schiavi di un potere diffuso che ama restare nell’ombra.
Savagnone ricorda il documento dei vescovi italiani del 1991 “Educare alla legalità”. E ricorda anche che lì si legge che non basta osservare le leggi, ma occorre verificare la conformità di queste ultime alle reali esigenze del bene comune. Non solo astenersi dal male, ma cercare il bene, parafrasando il Papa di domenica scorsa a commento della parabola dei talenti. Il rischio, in Sicilia ma non solo, è quello di un neo-feudalesimo che consente operazioni spregiudicate e a esso funzionali. A noi rimane la vigilanza e la resistenza, e la non connivenza, facilissima da praticare anche a latitudini diverse da quelle della patria di Totò Riina.
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