A 800 anni dalle stimmate di san Francesco d’Assisi

Caro direttore, oggi ti porto con me in un posto meraviglioso che come te molti conoscono e che hanno già visitato: il Sacro monte della Verna. Vi racconterò l’imposizione delle Sante Stimmate a Francesco d’Assisi. Sono trascorsi otto secoli, 800 anni…

Il monte della Verna è posto su un crinale appenninico della provincia aretina a cavallo tra Casentino e Valtiberina. E lì “…nel crudo sasso intra Tevero e Arno” (Paradiso, canto XI), il 17 settembre del 1224, due anni prima di morire, Francesco, in compagnia dell’inseparabile fra Leone da Viterbo, suo amico e confessore si era ritirato già da un po’ dal frastuono del mondo. Prima di visitare questo luogo aveva lasciato il comando e la responsabilità dell’Ordine a uno dei due primissimi compagni, Pietro Cattani, un giurista di nobile famiglia di Assisi, desiderando un contatto più vicino con il Signore. Erano tempi di prova per il Poverello… il suo desidero di perfezione gli martoriava come un tarlo l’anima e il cuore. Già il suo fisico ne risentiva da un po’: gli occhi, lo stomaco, la milza, il fegato… non c’era in lui un punto sano. Era un accumulo di sofferenza. I suoi infiniti digiuni e le mortificazioni fisiche non gli davano respiro e nonostante tutto arrivò a volere vivere in un assordante silenzio e devastante solitudine per poter dare tutto lo spazio necessario per ascoltare la voce del suo Signore.

Si trovava sulle rocce solitarie del monte la Verna, in ritiro, in un’ennesima ed estenuante quaresima in onore di san Michele arcangelo e là arrivò a chiedere: O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti prego che tu mi faccia prima che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione; la seconda, che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quell’eccessivo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso per sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori (Quarta Considerazione sulle stimmate, FF 1919). 

Solo un uomo devastato dall’amore può osare fare tali domande o voler provare tali cose… Ma per Francesco era una serenata d’amore come di uno spasimante alla sua bella. E il Crocifisso non aspetterà tanto a esaudirlo. Di lì a poco sarà un serafino a forma di croce, in un bagno di luce infuocata a segnargli per sempre le mani, i piedi e il costato. Nei piedi e nelle mani, come riferisce chi fece la ricognizione appena morto (lo possiamo leggere nella Legenda minor di frà Bonaventura da Bagnoregio) non saranno ferite o piaghe come erroneamente vediamo nella iconografia francescana, ma “chiodi di carne”, la capocchia sul palmo delle mani e nel dorso dei piedi, nel retro i chiodi ribattuti. Il fianco destro aperto come da una lancia. Aumentando il dolore e lo stato di malattia incarnava pienamente ciò che aveva detto Paolo di Tarso: “Non sono più io vivo, ma Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

Francesco era divenuto un alter Christus, un altro cristo vivente; l’amore lo aveva trasformato in una copia dell’amato. È Francesco ma sembra Gesù… E quel tesoro che porta nella carne e nel cuore lo stringe a sé gelosamente, quasi a non volerlo condividere con nessuno. Solo lui e Gesù dovevano sapere di questa cosa. Farà fatica a coprirlo e a nasconderlo… Solo chi è realmente innamorato arriva a capire che amore e dolore sono fronte e retro di un’unica medaglia. Non c’è una senza l’altra ed entrambe si amalgamano e si completano. Francesco amava Gesù e lo dimostrò durante la sua vita. Si racconta che quando pronunciava il suo Santissimo Nome si passava sulle labbra la lingua come per assaporarne tutta la dolcezza. Ancora. Non c’era volta che vedesse di lontano (mentre era con suoi in cammino) un campanile con su la croce, si gettasse a terra ad adorare lo strumento della nostra redenzione: “Ti adoriamo o Cristo e ti benediciamo perché con la tua santa Croce hai redento il mondo”. Che incredibile uomo che è stato Francesco d’Assisi. L’amore lo ha trasformato perché lui si è lasciato plasmare, mutare, cambiare come la creta nelle mani del divino vasaio (Sir 33,10). Concludo con il saluto che dava Francesco: “Il Signore vi dia Pace”. 

Massimo Pieri – Pepe – Cesena

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