Afghanistan: la storia di Gholam Najafi, “Come se Dio piangesse per me”

“Prima di scendere a terra mi sono agghindato con cura. Ho indossato gli unici vestiti puliti che avevo portato con me sotto il camion, custoditi in un sacchetto di nailon. Non volevo che la gente potesse pensare che ero un immigrato. A quel punto ho messo piede in Italia”:

così scrive Gholam Najafi, giovane scrittore afgano, nel suo primo libro, intitolato “Il mio Afghanistan”, e sono le stesse parole con cui racconta al Sir la sua storia che lo ha portato dal piccolo villaggio di Khoshal Shirdagh, nella regione di Ghazni, in Afghanistan – dove viveva facendo il pastore e il contadino – fino in Italia. Un viaggio lungo sei anni, passando per Pakistan, Iran, Turchia e Grecia, cominciato all’età di 10 insieme al fratellino più piccolo, dopo la morte del padre ucciso dai talebani. Incontriamo Najafi a Subiaco (Roma), dove nei giorni scorsi, nella biblioteca statale del Monumento nazionale di Santa Scolastica, la più antica abbazia benedettina al mondo (protocenobio), ha presentato il suo ultimo libro “Tra due famiglie” (ed. La Meridiana) in cui collega il suo passato al suo presente, l’Afghanistan, terra natale, all’Italia, paese adottivo.

Il viaggio. “Quando ho lasciato il villaggio avevo preso solo del pane, per non morire di fame, una giacca, dei calzini, e poco altro. Sono partito per sfuggire alla guerra, non avevo in mente niente altro che questo. Non pensavo nemmeno a chi era rimasto a casa, mio papà era stato ucciso dai talebani. In quei momenti diventiamo egoisti perché cerchiamo di salvare noi stessi” dice Najafi. La speranza era di “tornare un giorno a riprendere la mia vita di pastore e contadino, tra le greggi, le capre, le galline, la terra. A distanza di anni ancora oggi mi trovo a pensare che fine abbiano fatto i miei animali, la mia casa, il mio asino, la mucca. Non l’ho mai saputo. Come ogni bambino pensavo che la guerra fosse come la pioggia di primavera, quella che dopo un po’ smette e poi torna il sole. La guerra invece non si è mai fermata e continua ancora oggi dopo decenni”. I ricordi si rincorrono uno dietro l’altro ma oggi sono tutti fissati nelle pagine dei suoi libri, “Il mio Afghanistan”, “Il tappeto afghano” e, l’ultimo – per adesso – “Tra due famiglie” (Ed. La Meridiana).

“Come se Dio piangesse per me”. Più i ricordi vanno avanti più emerge il legame dell’autore con la scrittura, lui che era partito dall’Afghanistan “analfabeta. Sapevo a malapena che avevo 16 anni, non conoscevo la mia data di nascita, non avendo mai avuto dei documenti in Afghanistan. Il pomeriggio che sono arrivato a Marghera, nascosto sotto le assi di un Tir, pioveva tantissimo ed era come se Dio piangesse per me, quasi temesse il mio respingimento da parte della Polizia di frontiera”. Da questo momento in poi un susseguirsi di eventi: “il porto come dormitorio, l’incontro con due signore che mi fecero mangiare, l’arrivo in Questura e l’ingresso in una comunità di accoglienza per minori non accompagnati dove ho avuto modo di studiare un po’ di italiano”. La sensazione di vivere “in una terra di mezzo, lontano dal mio passato e di fronte a un presente che sapeva ancora di sofferenza”. Fino all’accoglienza in una famiglia, luogo ideale dove poter tornare “a dire mamma, papà, fratello, sorella, dove provare a comunicare e ancor più a dialogare”.

La scuola. Grazie anche alla scuola: “Avevo 21 anni – dice con un sorriso – quando ho conseguito il diploma di scuola media di 150 ore. Per molti ero un talebano, un marchio che mi distingueva dagli altri, un immigrato. Quel ‘pezzo di carta’ mi ha permesso di proseguire gli studi e iscrivermi alle Superiori, in uno istituto alberghiero. Studiavo letteratura italiana, un’ora a settimana, per me una materia ostica. Leggevamo la Divina Commedia ma io non capivo. Odiavo la letteratura che però cominciò ad entrarmi dentro quando, al quarto anno, conobbi un’insegnante che la spiegava con semplicità e profondità. Studiavamo Pascoli, Leopardi, Pirandello, Primo Levi, Omero, Virgilio, e più leggevo più avevo voglia di raccontare, di scrivere. Le dicevo: ‘Prof, anche io ho tante cose da dire, ho tutto dentro di me che arriva come un fiume che però non trova sbocchi’. Cominciai così a scrivere in italiano. Era il 2011. Sentivo il bisogno di raccontare il dolore visto e patito nei miei anni di viaggio. In Iran sono stato in carcere e ho visto come l’umanità viene violentata continuamente. I carcerieri ci gettavano dentro rovi di spine, ci bastonavano e ci minacciavano perché non dovevamo più entrare in Iran. Ho visto miei compagni morire sotto i camion, affogati in mare, o riportati in Afghanistan, resi schiavi senza diritti, sfruttati e abusati”.