Cesena
Al Bonci, regia di alto di livello per il classico “Maria Stuarda” rivisitato
Forse in quel 14 giugno 1800, quando al teatro di Weimar andò in scena per la prima volta il dramma di Friederich Schiller (1759-1805), il grande poeta tedesco sognava che le sue parole sarebbero rimaste immortali e che il suo dramma sarebbe stato rappresentato nei secoli a venire, come capitava agli autori della Grecia antica che la cultura tedesca del tempo idolatrava. Certo, non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe venuto il tempo dei registi innovatori, che avrebbero preso il testo così faticosamente composto e l’avrebbero drasticamente trasformato. È una storia che comincia a fine Ottocento ed ha il suo culmine nel XX secolo, quando il regista (termine moderno, va ricordato, che non si conosceva fino a un secolo fa) è diventato, in un certo senso, il “vero” autore dello spettacolo. Luigi Pirandello l’aveva acutamente profetizzato in “Questa sera si recita a soggetto” (1929) quando fa dire al regista Hinkfuss che è lui il vero autore dello spettacolo che si rappresenta. Chi l’ha scritto è autore solo del copione, ma quando l’opera prende vita è il regista il vero artefice.
Ultimo erede della numerosa stirpe degli Hinkfuss è Davide Livermore, che porta al “Bonci” di Cesena, dal 16 al 19 novembre la sua personale interpretazione della “Maria Stuarda” di Schiller.
Due grandi attrici, Laura Marinoni e Elisabetta Pozzi, sono le due regine del dramma, contrapposte in una battaglia feroce. Il tragico scontro tra Maria Stuarda, cattolica regina di Scozia, e la protestante Elisabetta I d’Inghilterra, nella versione di Livermore diventa anche una sfida per le attrici, che sera dopo sera si scambiano i ruoli: a indicare chi delle due sarà la sovrana destinata a regnare e chi quella sconfitta è un gioco teatrale nel prologo che si svolge sotto gli occhi del pubblico. L’angelo (forse l’angelo della storia di cui parla in una pagina mirabile Walter Benjamin?) lascia cadere una piuma delle sue ali, e a seconda del lato da cui cade, sarà l’una o l’altra a dare vita a Maria o Elisabetta.
I costumi delle protagoniste sono firmati da Dolce & Gabbana, a sottolineare il clima “rock” dell’interpretazione, rafforzato dalle musiche, in parte eseguite dal vivo dalla cantautrice Giua alla chitarra elettrica. In scena altri cinque tra attrici e attori (Gaia Aprea, Giancarlo Judica Cordiglia, Linda Gennari, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia) che interpretano più di un ruolo a testa, per rappresentare integralmente il dramma.
Opera profondamente suggestiva, per l’attenzione data al ruolo della donna, delle donne (inevitabile dato il contesto, con due regine che si contendono il trono), rappresenta un aspetto di sorprendente modernità in questi anni, in cui la condizione femminile sembra essere, finalmente, diventato un tema portante della riflessione sulla società moderna.
Dire che le tre ore di spettacolo passano senza accorgersene non sarebbe dire la verità: il testo, con i suoi lunghi monologhi, richiede molta concentrazione allo spettatore (e forse qualche taglio avrebbe anche giovato), ma si tratta di un tempo “utile”, perché permette di assistere a una regia di alto livello, per gestualità, interpretazioni, efficacia di una pronuncia scenica che permette di comprendere ogni singola battuta perfettamente, per scene semplici ma suggestive, per luci di grande efficacia e bellezza. È proprio l’unione di effetti di luci e di musiche ad essere di grande impatto sugli spettatori, perché l’opera del compositore Mario Conte e della cantautrice Giua funziona benissimo: la chitarra e il canto dal vivo danno sempre qualcosa di più a uno spettacolo, e in questo caso sono state rielaborate musiche del XVI secolo, scritte proprio per Elisabetta I o per Maria Stuarda, rinnovando il loro suono pur rendendole riconoscibili.
Alla serata di ieri non c’era molto pubblico, ma gli applausi scroscianti hanno testimoniato che i presenti hanno apprezzato molto, e non poteva essere diversamente. Un interessante esempio di rivisitazione di un classico, che pur mutando non tradisce il cuore del testo rappresentato.