Cesena
Carmen Lasorella ospite del Rotary: “Covid e informazione. La variante italiana, l’infodemia”
Non c’è solo il Covid 19. E soprattutto non c’è solo il teatrino della politica che parla e litiga sul Coronavirus. Lo ha ribadito più volte giovedì sera Carmen Lasorella, giornalista, anchorwoman e mezzobusto televisivo conosciutissima (inviata in MedioOriente, conduttrice dei Tg Rai, corrispondente da Berlino e poi direttore generale di San Marino TV, una rete Rai), ospite del Rotary Club di Cesena e di 30 altri club che si sono uniti alla serata organizzata dal presidente (e nostro direttore) del sodalizio cesenate, Francesco Zanotti. La conviviale online è stata introdotta da un saluto del governatore del distretto 2072 (Emilia-Romagna e Repubblica di San Marino) Adriano Maestri. Quasi 200 i collegamenti da tutt’Italia (tra gli altri, da Ostuni, Reggio Calabria, Sassari, Roma, Napoli, Matera e i più vicini Bologna, Sassuolo e Castelbolognese e Forlì) per ascoltare la carismatica inviata sul tema “Pandemia e informazione: la stampa e social”. Un titolo provvisorio che alla fine del suo intervento, la stessa Lasorella riformula in “La variante italiana: l’infodemia”.
Il perché lo spiega per immagini. “Dicembre 2019, arrivano le prime immagini dalla Cina. Ma subito pensiamo: ‘Non ci riguarda, la Cina è un Paese diverso, non lascia margini di libertà’. Poi, un anno fa, il Covid arriva in Italia. La vita si interrompe, siamo rimasti attoniti, abbiamo avuto paura”.
“Tante volte ho rischiato la vita – prosegue la giornalista –. Sono stata ferita. E ho perso un collega facendo il mio lavoro. La strada sulla quale è morto Luca Attanasio, l’ambasciatore ucciso lunedì scorso in Congo, l’ho percorsa diverse volte. Dobbiamo aver il coraggio di dire perché è morto (“un uomo che ha fatto il suo lavoro, non un eroe”, dirà poco più tardi, ndr). Dobbiamo avere il coraggio di dire che non è un caso, che il Congo è al centro degli interessi di tante multinazionali e di Paesi e che sei milioni di persone sono morte in Africa l’anno scorso, ma nessuno lo dice”.
Numeri e racconti in maggioranza sconosciuti al grande pubblico in Italia che invece da un anno sente parlare quasi solo di pandemia. E in modo univoco. Tranne rare eccezioni, tra cui Avvenire e anche noi dei settimanali cattolici che ci abbiamo provato a raccontare un’altra realtà. “Da quel febbraio 2020 si sa molto poco di tutto il resto. La nostra vita ordinaria si è interrotta. Abbiamo assistito a un lockdown mentale. Ci siamo ritrovati soli in casa, davanti alla tv accesa, con internet che va a singhiozzo perché anche di questo non si parla, ma in Italia c’è un divide pazzesco con una banda anoressica. Un disagio tangibile, fisico. Siamo stati trascinati in questo buco nel quale, come sott’acqua, abbiamo perso il senso e la cognizione del tempo”, incalza la giornalista capace di tenere calamitati tutti agli schermi dei pc.
L’infodemia, appunto: un eccesso di informazioni che non si è trasformato in maggiore conoscenza e comprensione di quel che stava accadendo. Perché? Da un lato, insiste Lasorella, “c’è il web, dove tutti hanno potuto dire di tutto. Anche la pandemia è stato l’ennesimo strumento di politica e propaganda. Un’occasione per dire che la colpa era degli altri (della Cina ad esempio, ndr). Dalle migrazioni, il fuoco si è spostato sulla pandemia”.
Dall’altro, la stampa non ha sostenuto la “reazione, il coraggio, ma al contrario ha contribuito ad alimentare la paura”. E la ragione è da ricercare nel vero tarlo del sistema informativo italiano: la pervasività della politica e la scarsa indipendenza dei media: “Il nostro è un mestiere che si fa ‘con i piedi’, dove si va, ci si muove, si sente l’odore dei fatti, mentre il giornalista oggi viene spesso scambiato per la buca delle lettere. Ho visto entrare in un reparto di terapia intensiva un solo collega in questi mesi. Senza retorica. In punta di piedi. È stato Alessio Lasta di PiazzaPulita. La maggior parte degli altri non entrava negli ospedali. Si limitava a parlare davanti al loro ingresso e a ripetere il comunicato ufficiali che uscivano da quegli ospedali. Questa crisi ha messo a nudo i limiti del sistema”.
L’informazione del Covid è stata per l’ennesima volta un’informazione da riporto”. Perché, “l’autonomia per il giornalista ha un prezzo”, insiste Lasorella. E, rileggendo la sua carriera e, in particolare, la mancanza di incarichi professionali tra il 2004 e il 2008, si comprende bene come l’abbia sperimentato sulla sua pelle. “In Birmania, dal premio Nobel per la pace 1991, Aung San Suu Kyi – ha aggiunto – ho imparato a non avere paura. E allora faccio quello che devo fare. Invece, la paura corrompe, infiacchisce. In tante occasioni, specie nel dopoguerra, la stampa è servita a unire. Nel corso di questa pandemia ha gonfiato la paura”.
“La pandemia – aggiunge l’inviata – ci ha sbattuto in faccia la realtà: che siamo un bellissimo Paese, ma che non si può più tollerare un’informazione così controllata. E questo ci riguarda perché un Paese cresce solo se si informa. Ora, toccato il fondo, si può solo risalire. L’opinione pubblica dovrebbe chiedere qualcosa in più al mondo dell’informazione. Esiste da un lato il diritto alla libertà di espressione, ma di pari passo, dovrebbe esistere anche il diritto a essere informati”.
“Come ci si può allora informare in Italia?”, chiede qualcuno sulla chat? “Credo che ciascuno tenga la sua ‘dieta’ anche mediatica, perché è importante mantenere una forma anche intellettuale. Dobbiamo esercitarci a pensare il più possibile. E torniamo a discutere di politica”.
Un esperimento come wikipedia può essere un antidoto all’informazione controllata? “No, non credo, perché servono delle chiavi per accedere alla conoscenza. E l’informazione approfondita si paga. Wikipedia è un utile strumento popolare e democratico. E i social sono soprattutto predatori di dati”.
Nonostante quanto detto fin qui, Lasorella non è, né vuole essere, pessimista. “Sì, è arrivato il momento di porsi la questione morale, anche a partire dalla comunicazione – conclude – perché abbiamo un obbligo di correttezza e coerenza con i giovani. L’augurio è quello di tornare a stringerci le mani. Ma attenzione all’infodemia”.