Cina, la crisi Evergrande

Il dubbio che la crisi del gruppo cinese Evergrande possa diffondere una crisi finanziaria globale ha preso consistenza con la richiesta di utilizzare le procedure del “Capitolo 15” previsto dagli Stati Uniti quando una società quotata straniera dichiara l’insolvenza.

È un percorso di crisi ordinata per evitare che i creditori cerchino di azzerare la società rivalendosi sui beni liquidi e fisici. Evergrande, in difficoltà da un paio d’anni, ha circa 340 miliardi di dollari di indebitamento. Tutti coloro che hanno prestato soldi al gruppo, leader nello sviluppo di grandi aggregati immobiliari in Cina, rischiano di non rivedere i soldi investiti. E vanno in crisi mettendo in difficoltà altri prestatori di denaro.

Come è accaduto tante volte nei mercati finanziari, le banche e gli investitori istituzionali prestano cifre immense in cerca di grandi rendimenti, fanno gran debito gli uni sugli altri (tecnicamente si chiama leva finanziaria); quando il debito è spropositatamente alto rispetto agli utili societari non garantisce la restituzione di capitali e interessi.

La propagazione di un debito non pagato rischia di scaricarsi ovunque e non a caso si teme una nuova crisi Lehman, il fallimento nel 2008 di una grandissima banca d’affari Usa crollata per le sue iniziative speculative con riflessi negativi in tutto il mondo. Il presidente americano, Joe Biden, ha dichiarato “che l’economia cinese è una bomba a orologeria”. Cina e Usa si stanno allontanando e si teme che a Taiwan la Cina possa attaccare per conquistare territori che ritiene suoi.

In questo momento gli sviluppi di Evergrande e di altre società cinesi (Country Garden e Zhongrong International Trust) non sono scontati. In un modo o nell’altro il Governo cinese dovrà destinare soldi pubblici alla copertura dei maxi-debiti. Le autorità cercano di incentivare l’acquisto di yuan e dei titoli in Borsa per arginare l’ondata di vendite che ha mandato in rosso il listino di Hong Kong. La cifra necessaria è importante e corrisponde al 2% del Pil (Prodotto interno lordo) cinese.

Al di là della caduta delle Borse (Milano compresa), forse è più urgente osservare l’indebolimento dell’economia reale di Pechino. Sta crescendo la diffidenza internazionale e la Repubblica popolare sta subendo una frenata con previsioni di crescita ridimensionate al 4,8%. Senza un’economia forte rallenta la crescita dell’occupazione e svanisce il sogno delle campagne di ottenere la stessa ricchezza degli agiati cittadini.

La classe media non riesce più a pagare i mutui e le case restano invendute o vengono pignorate. Uno scenario che il leader Xi Jinping, critico su Borse e attività finanziarie, non può non affrontare.