Dall'Italia
Coronavirus. La testimonianza di una dottoressa di un reparto Covid: “Tracciavo un Segno di Croce e portavo una carezza”
Un dono ricevuto e presto reso. Così si può condensare l’esperienza delle ultime settimane vissute dal medico Maria (il nome è di fantasia, visto il coinvolgimento di diverse persone nella storia raccontata) impegnata nel reparto Covid di un ospedale della provincia bolognese. “Come io stessa avevo ricevuto quella compagnia e visto quella bellezza, così voleva in qualche modo renderla a chi poteva essere nelle condizioni in cui mi ero trovata con tutta la mia famiglia”, racconta la dottoressa a un gruppo di giovani di Forlì che ogni giorno si trova in chat per pregare e per ascoltare alcuni testimoni.
Il nosocomio in questione doveva essere un ospedale cosiddetto pulito. “Non avevamo – dice la dottoressa collegata online – i presidi necessari. Nel giro di una settimana mi sono ammalata di Coronavirus e con me anche mio marito. Avevamo entrambi la febbre molto alta, una gran stanchezza per la quale facevamo fatica ad alzarci dal letto. In breve si sono ammalati anche i nostri figli, di due anni e mezzo uno e 11 mesi l’altro. Ma loro stavano bene, senza sintomi e avevano voglia di divertirsi”.
Non sapendo come fare a gestire la famiglia, Maria invia un po’ di messaggi ad amici e parenti. “Mi dicevano che era la malattia della solitudine, invece ho sperimentato una cura nei nostri confronti che non mi sarei aspettata. Ho avvertito attorno a noi una gran compagnia – prosegue nel racconto la dottoressa/mamma -. Qualcuno ci ha fatto arrivare dei regali ordinati in Rete per fare giocare i nostri figli, visto che noi stavamo male. E poi la spesa portata a casa, l’immondizia da gestire, le medicine recapitate dalla stessa farmacista”.
Una schiera di persone in aiuto di chi non poteva fare in maniera diversa. “Anche la pediatra mi ha assicurato che avrebbe portato a casa sua i nostri figli nel caso fossimo stati ricoverati – dice ancora Maria -. E poi la visita da noi di don Santo Merlini per portarci la Comunione… Incredibile. Nel momento in cui tanti ne sentivano la mancanza, noi eravamo privilegiati con l’Eucaristia portata a domicilio. Per me si è trattato di una premura e di un’attenzione che mi hanno fatto vedere come Cristo ha bussato alla nostra porta, non per chiedere, ma per dare”.
Una quarantena caratterizzata da una gran compagnia, quella vissuta da Maria e dalla sua giovane famiglia. È arrivato anche il Rosario recitato assieme e il modo di ritrovarsi in maniera diversa rispetto al passato. “Dopo tre settimane – aggiunge la dottoressa – i tamponi sono risultati negativi e sono tornata a lavorare, ma nel frattempo l’ospedale era stato trasformato in reparto Covid con tutto organizzato tra percorsi sporchi e puliti. E i pazienti da 35 erano diventati 70”.
Al “nostro” medico ne vengono affidati 18. Di questi 16 sono in condizioni discrete mentre due sono morenti, per i quali non c’era più nulla da fare. “Mi ha chiamato la figlia di una di queste due signore in gravissime condizioni. Ho messo le due donne in collegamento con il mio cellulare. Ho visto che la madre l’avevo riconosciuta attraverso lo schermo. Ti voglio bene, le diceva la figlia. E poi, rivolta a me, si è raccomandata: le dia una carezza da parte nostra. Da quel momento ho cercato sempre di fermarmi un po’ di più con i pazienti che avevano bisogno di compagnia. Dicevo ad alta voce: i vostri figli vi vogliono bene. E poi tracciavo un Segno della Croce e davo una carezza”.
“Se mi sono sentita strumento nelle mani di un Altro? A volte sì – aggiunge Maria – perché la figlia di quella signora mi diceva di essere contenta per la madre sapendo che ero lì io a starle ogni tanto accanto. Con questa anziana ci ho anche pianto e con la figlia siamo passati dal lei al tu visto che stavamo affrontando assieme la morte della madre”.
E poi ci sono anche i pazienti in attesa dei tamponi negativi. “Portavo il mio cellulare in un sacchetto di plastica – conclude la dottoressa – e così li facevo chiamare a casa. È in questo modo che il mio giro-visite si è allungato non poco, ma per me era, e rimane anche oggi, importante che quelle persone non si sentissero e non si sentano sole”.