Cesena
Coronavirus. Un’infermiera del “Bufalini”: “Siamo come piccole truppe che vanno in battaglia, ogni giorno. Tutti insieme per lo stesso scopo”
“All’inizio vedevo la Lombardia, ma non capivo”. Così dice un’infermiera (omettiamo il nome per motivi di opportunità e la chiamiamo Maria) dell’ospedale “Bufalini” impegnata nel reparto Covid diretto dal primario Beniamino Praticò che abbiamo intervistato nei giorni scorsi (vedi intervista a fianco). “Quando poi i pazienti con il Coronavirus sono arrivati da noi ha cominciato a comprendere”.
Il reparto nel quale è impegnata l’infermiera è stato totalmente rivoltato. Sul pavimento c’è una divisione netta tra parte cosiddetta pulita (senza il virus) e quella sporca (con il virus). “Chi è sporco si barda tutto – prosegue nel racconto l’operatrice sanitaria -. Chi è fuori dai reparti Covid non entra mai nelle camere di quei pazienti. Il collega sporco ha bisogno di aiuto. Si lavora in coppia, in particolare per vestirsi, operazione per la quale occorrono dieci minuti”.
Si comincia dal “camice sotto, poi quello sopra che il collega ti deve allacciare. C’è anche la visiera da indossare, a prescindere da cuffia e mascherina che tutti devo mettere. Una doppia armatura, bella tosta da portare, con le mascherine ffp2 che comprimono il naso. Per preservarlo ci vuole un cerotto antidecubito. E gli occhiali, perché dagli occhi può passare di tutto. È come se fossero una ferita aperta”.
Come si riesce a lavorare così vestiti come dei palombari? “Si vive in questo momento con altri ritmi – prosegue Maria -. Il lavoro è molto più lento del solito. Rimanere vestiti così per ore è molto faticoso. Mettiamo anche un doppio paio di guanti. Quello più esterno è da cambiare a ogni cambio di stanza. Ci muoviamo con grande attenzione, stando sempre guardinghi verso ciò che si tocca. Usiamo massima attenzione nel vestirci e nella svestizione, avendo cura a non contaminarci”.
Il lavoro di queste settimane aiuta a cimentare la squadra. Sono nate anche nuove amicizie “Ci sentiamo più uniti tra noi – confessa Maria -. C’è più voglia di condividere e di stare insieme. Siamo come piccole truppe che vanno in battaglia, ogni giorno. Tutti insieme per lo stesso scopo”.
Si convive con la paura? “Certamente: in particolare quella di infettare qualcuno e anche quella di essere infettato – continua nel racconto l’infermiera -. Non si può mai dare nulla per scontato. Si vive con tanta tensione. Tutto è un rischio. Ci vogliono migliaia di occhi, anche quando prendiamo le consegne dai colleghi e siamo costretti a stare a distanza. Penso e ripenso ai movimenti che faccio, anche quando sono a casa. Sì, perché alcune cose uno se le porta a casa per forza”.
“Per me la parte più faticosa di questo periodo così diverso è il rapporto con i pazienti – continua Maria -. Avere il contatto diretto con loro per me è la parte più bella del mio lavoro, quella per la quale l’ho scelto. Adesso possiamo assisterli solo guardandoli negli occhi. Mi manca il rapporto fisico con loro. Mi sembra di essere un distributore automatico di medicine. Ci si può fermare pochi istanti e dobbiamo mantenerci a distanza. Mi è rimasta impressa l’immagine di una collega che ho seguito grazie al collegamento con le telecamere: ho visto che stringeva la mano a una paziente che non voleva rimanere sola. Per loro siamo l’unico collegamento con il mondo”.
“Addirittura a volte non ricordo neppure il volto dei pazienti. È un modo di lavorare che non mi corrisponde e vivo questa difficoltà. Parlando con un amico medico questi mi ha fatto comprendere che quanto stiamo vivendo è un’altra forma di carità. Adesso sono chiamata ad assistere i pazienti in questo modo. Faccio parte di un grande Mistero, a me in gran parte misterioso…”.
E il rapporto con la morte così vicino? “Non mi scandalizza che un paziente possa morire. Ho a che fare con pazienti oncologici, ma questo virus ti fa capire che la vita non ci appartiene, non è nella nostra disponibilità. Questo interpella la mia fede. Fino all’altro giorno andava tutto bene. Poi è arrivata la pandemia e uno si sente vulnerabile, scoperto. Allora può essere un modo per andare più a fondo alle domande che ho nel cuore. Altrimenti mi parrebbe tutto una fregatura. Invece ho bisogno di comprendere dove ci porta questo virus”.