Dall'Italia
Democrazia fa rima con formazione
Formazione. Questa la parola risuonata nei saloni che a Trieste hanno radunato oltre mille delegati di diocesi, movimenti e associazioni per la cinquantesima ‘Settimana sociale’ dei cattolici in Italia. Un ascoltatore attento l’avrebbe potuta cogliere come un mantra nei tavoli di confronto che hanno lavorato per tre giorni sui temi della democrazia e della partecipazione. Invocata come decisiva perché i giovani, ma non solo loro, scoprano quella scintilla di passione che può mettere in moto ogni iniziativa, richiesta come prassi condivisa per consolidare processi in atto che rischiano di sfilacciarsi nella loro continuità, sollecitata per rafforzare nelle motivazioni di fondo gruppi spontanei esistenti, ma smarriti di fronte alla complessità del reale. “Formazione” può essere una scatola vuota, priva tanto di materia prima quanto di attrezzi. In cosa formare, a cosa tendere, perché quella distanza troppo profonda fra istituzioni e Paese reale inizi a ricucirsi? E quale può essere, in questo percorso, il ruolo dell’informazione cattolica? Dai lavori della Settimana sociale credo siano emerse tre indicazioni nemmeno troppo sotterranee.
La prima: non abbassare il livello medio della qualità di quello che proponiamo come professionisti. A Trieste sono state pronunciate relazioni di altissimo contenuto scientifico. E nessuno si è lamentato, nessuno ha chiesto qualcosa di meno. Perché c’è desiderio di sapere, ma anche di capire. E su questo fronte i giornalisti sono in prima linea. L’informazione genera formazione: in quanto precisa, attenta, responsabile, contribuisce a individuare gli elementi di contesto utili a capire ogni notizia e a generare in chi legge, vede, ascolta una consapevolezza critica. Dare per scontato quello che può spiegare meglio una notizia ne cancella la profondità, elimina la possibilità di mettere insieme elementi fra loro diversi ma connessi.
La seconda: la strada per una informazione di qualità richiede mestiere, applicazione delle regole e sperimentazione. Il metodo di lavoro proposto alla ‘Settimana sociale’ non era esente da limiti e da rischi, ma si basava si un assioma: ascoltare l’altro con cordialità è il primo passo per una condivisione di obiettivi chiari e per la loro realizzazione. E pazienza se lungo il percorso ci si imbatte in imprevisti non calcolati: per provare a cambiare mentalità nel mondo della comunicazione cattolica bisogna anche saper osare strade nuove.
La terza: ascolto genera partecipazione. Lo hanno chiarito le relazioni, lo hanno dimostrato i lavori di gruppo: perché un processo permanga e diventi partecipativo occorre che ogni attore esprima quello che lo ha formato, la domanda su cui si basa il suo impegno, la sua visione e la sua esperienza. Ed è da lì che si può, e si deve partire. Anche nel mondo della comunicazione: elidere le domande del Paese reale, ignorarne ferite e problematiche per dare voce a istanze maggioritarie può dare risultati nell’immediato, ma non genera quel progresso costante e continuo di cui ogni formazione sociale ha bisogno. Lo ha ricordato il presidente Mattarella aprendo i lavori: la democrazia è tale se ogni minoranza si sente rappresentata e può aspirare a diventare maggioranza. E su questo i giornalisti cattolici possono fare la differenza, con la loro testimonianza di “una fede inquieta”, ha ricordato il Papa celebrando l’Eucarestia nella meravigliosa piazza Unità d’Italia. Incarnata. Da queste giornate di lavoro emerge un ritratto dei professionisti della comunicazione. Il documento “5M per un giornalismo responsabile” mira a radunare intorno a sé: inquieti, perché consapevoli della responsabilità loro affidata; ironici, perché distaccati nel rivendicare risultati che solo una prassi comunitaria e non individuale possono avvicinare; liberi, perché aderenti a valori universali, e quindi cattolici. E stupiti, infine, pronti a lasciarsi colpire da quello che accade.