Ecumenismo. Sfredda (Sae): “Riconoscendoci fratelli, impariamo a camminare verso il centro che è Cristo”

“In tempi oscuri, osare la speranza. Le parole della fede nel succedersi delle generazioni”: questo il titolo della 58ª Sessione di formazione promossa dal Segretariato attività ecumeniche (Sae Aps) a Santa Maria degli Angeli (Assisi), dal 24 al 30 luglio, presso la Domus Pacis. L’evento ha costituito il secondo momento della ricerca ecumenica avviata nel 2021 con la sessione su “Racconterai a tuo figlio (Es. 13,8)”. Il tema della comunicazione della fede entro un dialogo intergenerazionale quest’anno è stato approfondito con una particolare attenzione per il difficile tempo di cambiamento in atto, che invita a declinarla nel segno della speranza. Della Sessione, appena conclusa, a distanza di pochi giorni, parliamo con la presidente del Sae, Erica Sfredda.

Presidente, che bilancio può fare di questa Sessione di formazione del Sae?

Un bilancio molto positivo, sia per la qualità degli interventi, sia per l’entusiasmo e la partecipazione di tutte le persone presenti. Nonostante la pandemia e le difficoltà causate dalla guerra e dalla siccità, quasi 200 persone da tutta Italia si sono ritrovate in una Assisi calda e assolata e insieme hanno affrontato le gioie e le fatiche di questa 58ª settimana di formazione ecumenica. Per me è stata la prima Sessione da presidente, è stata un’esperienza bellissima, per la ricchezza delle relazioni, per la profondità della preghiera, ma anche per i tanti momenti di conoscenza e discussione. Alla Sessione hanno partecipato cattolici, protestanti e ortodossi, con qualche presenza ebraica; purtroppo, non era presente la prevista componente musulmana, per ragioni dovute alla pandemia. Provenivamo da tutte le regioni d’Italia e rappresentavamo tutte le età: dalla più piccina di un anno e mezzo fino alla più anziana di 88. Un gruppo di ragazzi e ragazze dai 6 ai 12 anni ha lavorato in parallelo al tema generale della Sessione, concentrandosi sul significato cristiano della speranza.

Inspirandoci al tema scelto per questa Sessione, secondo lei, “in tempi oscuri”, come si fa a “osare la speranza”? Quali sono gli ostacoli e come superarli?

“Osare la speranza” ci è sembrato il titolo più adatto per questa Sessione, che si poneva come seguito ideale della Sessione dello scorso anno, dedicata al tema “Racconterai a tuo figlio” (Esodo, 8). Cos’è la speranza? È la domanda da cui siamo partiti: la speranza in senso biblico, che non consiste in qualcosa di magico o scaramantico cui attaccarsi nella disperazione, ma nel riscoprire la vocazione che ci è stata rivolta. Essere credenti non ci rende dei privilegiati; anzi, in questi giorni spesso si è parlato di responsabilità e di impegno, ma prendendo atto che la Bibbia è il racconto di un succedersi di crisi (e riscoprendone in ciò la sconcertante attualità), abbiamo messo a fuoco che la crisi è un’opportunità, il terreno nel quale si sviluppa e cresce il cambiamento e la possibilità di superare la nostra negatività per incontrare il piano di Dio. È evidente qui il richiamo potente all’ascolto della Parola; un richiamo riecheggiato quotidianamente anche nei momenti di meditazione e di liturgia, in cui abbiamo potuto vivere la diversità dei modi di pregare delle diverse confessioni cristiane come doni che il Signore ha seminato per tutti e tutte noi, in un clima di ascolto e comprensione reciproca.

In questo “osare la speranza” quale può essere il contributo delle singole Chiese e del movimento ecumenico?

Il verbo “osare” implica coraggio e determinazione, che sono ingredienti indispensabili per ogni singolo credente e per ciascuna Chiesa. Il movimento ecumenico è un cammino che ha le caratteristiche della sinodalità, nel senso che è un esercizio continuo d’incontro, confronto e dialogo che procede dall’ascolto reciproco per affrontare i problemi e le difficoltà in modo non conflittuale, riconoscendo le differenze come ricchezza e patrimonio comune. È veramente una rivoluzione copernicana quella che viene richiesta, poiché,

nel momento in cui si riconosce nell’altro un fratello o una sorella, si impara a camminare verso il centro che è Cristo.

Quali sono le difficoltà oggi a trasmettere alle nuove generazioni le parole della fede?

Alle giovani generazioni lasciamo un mondo martoriato da un cambiamento climatico, che sta diventando irreversibile, e intriso di focolai di guerra che lo devastano: i ragazzi di oggi sono la prima generazione che ha prospettive di qualità di vita peggiori rispetto ai propri genitori. In questo senso, gli adulti di oggi sono pessimi testimoni e hanno perso credibilità. Nella Sessione abbiamo voluto ascoltare le voci giovani, sia con una specifica tavola rotonda, sia all’interno dei laboratori nei quali erano relatori, perché riteniamo che i giovani non siano semplicemente “il futuro”, ma “il presente”, e che il dialogo intergenerazionale deve accogliere tutti i protagonisti su un piano di assoluta parità. Il metodo del dialogo, proprio dell’ecumenismo, apre l’orizzonte verso un mondo in cui le diversità, non solo di fede o di cultura, di provenienza geografica o di genere, ma anche di età, diventano un patrimonio da valorizzare e non da cui difendersi.

Quale può essere il contributo dei giovani cristiani per l’ecumenismo e per un rinnovamento delle nostre Chiese?

Nella tavola rotonda interreligiosa intitolata “Fede: un tesoro per i giovani”, è emersa con forza un’istanza di impegno “trasversale” tra le generazioni e anche il bisogno di alimentare la ricchezza che i giovani possono dare a una nuova vitalità ecclesiale. Essi hanno richiamato con forza alla capacità di essere pazienti, ricordandoci che i tempi di Dio non sono i nostri e che quindi ci vuole l’umiltà di ascoltare chi solitamente non ha voce, ma anche di riscoprire la gioia di stare insieme e di credere.

Che parole oggi servono per dire la fede ed essere testimoni credibili della speranza?

Riprenderei le tre parole che i corsisti della Sessione hanno “votato” nel corso di un panel interconfessionale intitolato “Dire Dio nelle fratture”: “fragili” poiché ci riconosciamo tali di fronte ai disastri della nostra attualità; ma anche “crepa”, nel senso di fessura attraverso la quale passi una luce di speranza; e infine “decisione”, a sottolineare l’impegno a operare, senza lasciarci sopraffare dallo sconforto. Abbiamo preso atto di essere degli “irresponsabili”, in quanto colpevoli di non avere vigilato abbastanza, dunque

ci sentiamo chiamati a diventare “responsabili”, nel senso di spenderci in prima persona nella vita quotidiana, per dare compimento alla speranza.

Noi auspichiamo che questo percorso abbia anche suscitato riflessioni e ci stimoli a metterci in cammino, nella nostra vita quotidiana, nelle nostre case e nelle nostre comunità.