Dall'Italia
Festival di Sanremo. Bernardini: “Nel tempio della canzone italiana si dovrebbe parlare più di musica”
“Perché Sanremo è Sanremo”. Così si cantava in una sigla di qualche anno fa. Ma cos’è oggi Sanremo? Lo abbiamo chiesto, al termine della 70ª edizione del Festival della canzone italiana, a Massimo Bernardini, giornalista e conduttore televisivo, attualmente alla guida, su Rai 3, di “Tv Talk”, lo show magazine sul mondo della televisione.
Le è piaciuto Sanremo 2020? Nel grande spettacolo cosa è restato del Festival della canzone?
Provo un po’ di disagio che nasce dalla considerazione che la canzone italiana è una cosa importante dentro la nostra cultura, non solo quella popolare: ha segnato profondamente, nel bene e nel male, le tappe della storia del nostro Paese. Sanremo fino a quarant’anni fa ha rappresentato tutto questo, poi è cominciata la trasformazione del Festival in un grande contenitore televisivo, in qualche modo per salvarlo perché a metà degli anni ’70 si era consumato. Il più grande responsabile di questo cambiamento è stato Pippo Baudo, mentre è stato Franco Battiato a riaccendere i riflettori sul Festival scrivendo per Alice una canzone così bella come “Per Elisa”. Il Festival si stava spegnendo da solo lentamente, come un malato terminale che poco alla volta se ne va, mentre negli anni Ottanta è riesploso più grosso di prima. Partendo da allora, siamo arrivati a oggi: nella 70ª edizione si è capito come le canzoni in gara fossero una piccola componente di questa macchina da spettacolo, da ascolto, da utile per la Rai, anche da contenitore apparentemente molto impegnato. Tutto è stato fatto con grande buona volontà, ma il problema è secondo me che questo è il Festival della canzone italiana: si dovrebbe partire da lì e attorno costruire il racconto, mentre ormai le canzoni in competizione arrivavano ogni tanto, facendo perdere anche appeal alla gara. La grandezza della canzone italiana non può essere confusa con la “nostalgia canaglia” ed è di più del ricordo e dell’emozione di quando eravamo giovani: è lo scoprire che canzoni piccole, che sembravano semplicemente dei refrain da canticchiare, in realtà avevano detto qualcosa d’importante. Il Festival dovrebbe lavorare molto di più sulla valorizzazione della grandezza della canzone italiana.
Si è parlato tanto di un Festival delle donne, di contenuti, ma è stato così?
Penso che il momento più bello dell’edizione 2020 di Sanremo è stato il monologo di Rula Jebreal, anche al di là di quello che stava dicendo, ma per la forza e intensità con la quale ha raccontato di sé: è arrivata una testimonianza forte. Gli altri interventi non sono stati allo stesso livello. È stato un tentativo, ma non basta. Sanremo è il massimo palcoscenico italiano, ma tranne quello di Jebral gli altri monologhi non erano forti. Non sono le buone intenzioni a fare un buon Festival. Si poteva pure scegliere di concentrarsi sul tema femminile, ma si doveva lavorare per avere quattro o cinque momenti veramente potenti. C’è stato, invece, un po’ un accontentarsi. Io non riesco a promuovere totalmente questa idea di trasformare il Festival come un grande luogo predicatorio. Nel tempio della canzone italiana si dovrebbe parlare molto di musica, invece si parla di mille altre cose.
Con Tiziano Ferro è arrivato sul palco dell’Ariston anche il tema dell’omosessualità…
Non mi imbarazza che se ne parli, ma bisognerebbe arrivare a una “normalizzazione”, quasi dimenticandosi che Tiziano Ferro sia anche gay. Questa mania, di un’altra epoca, di identificarsi nell’appartenenza sessuale, la trovo riduttiva della persona. Nel caso di Ferro a lungo c’è stato un problema di negazione della propria differenza, quindi capisco che ora ci sia una sorta di rivendicazione, ma io condivido la prudenza con cui la questione dei legami tra persone dello stesso sesso è stata affrontata nel nostro Paese: per la legge italiana sono unioni civili e non matrimonio. Comunque, ribadisco, sarebbe bello se la finissimo di definirci a partire dalla nostra appartenenza sessuale.
I testi delle canzoni le sono piaciuti?
Io diffido sempre della canzone in cui il testo è bello ma la musica no oppure è bellissima la musica ma il testo non vale niente. Come sempre negli ultimi anni, si possono trovare alcune grandi canzoni: penso a quella di Tosca, che ha portato musica ed eleganza nel testo. Diodato, il vincitore, dimostra che non si vive di soli talent e la sua canzone è musicalmente solida. Elodie è un altro esempio della capacità di Sanremo di essere contemporaneo, il suo è un gran bel pezzo, è di qualità. Irene Grandi è molto brava ma la sua canzone non lascerà il segno. Anche il pezzo di Levante ha una certa forza, Rancore ha forza, Raphael Gualazzi ha sempre classe. Un gran pezzo è quello di Rita Pavone che ha avuto coraggio a presentare qualcosa che non fa il verso al suo passato. Poi Achille Lauro, nel suo trasformismo, ha lasciato un segno: anche se molti si sono scandalizzati, avere il coraggio della provocazione ha un suo senso.
Amadeus e Fiorello hanno definito questo come il Festival dell’amicizia, ma poi non sono mancate le polemiche: sono state create ad arte per far salire lo share?
Ci sembrano grandi polemiche perché, una volta all’anno, Sanremo gonfia tutto, ha tanti riflettori e tanto pubblico, ma se si guardano a freddo sono piccole cose: hanno litigato Morgan e Bugo, ma non è un dramma nazionale; a Fiorello è sfuggita una parola in conferenza stampa, ma è un dramma nazionale? No. Non sono servite neppure per l’audience. La gente ha l’abitudine di sedersi sul divano con gli amici per cinque giorni, ogni anno sono tra i 9 e i 10 milioni di italiani. Lo share quest’anno è più alto perché lo spettacolo è andato avanti fino a tarda notte, ma in termini di “teste” non è stato il Festival con il maggior numero di telespettatori.
C’è un “vincitore” del Festival di Sanremo, al di là della gara?
Di fronte a un panorama con ascolti frammentati – questa è la condizione della televisione di oggi – non ci sono più grandi eventi, a parte il calcio, che raccolgono davanti alla tv generalista una simile mole di pubblico. Allora, è sempre Sanremo che vince ed è uno dei fenomeni dell’anno. Ci sono stati anni che è stato più innovativo, anni che è tornato indietro. Quest’anno di innovazione ne ho vista poca anche perché il conduttore è classico e compassato, da cui non ti aspetti spallate, come è successo con Chiambretti. Ma tutto questo non cambia la natura dell’evento: resta un’anomalia della televisione generalista mondiale. Non c’è un appuntamento in grado di fare un simile risultato.
Per il Festival 2021 auspica un ritorno alla canzone come protagonista?
Sì, ma sono un illuso, perché ormai è un’altra cosa. Ci saranno sempre quelle cinque o sei canzoni rispettabili e belle per le quali il Festival sarà prezioso perché altrimenti nessuno si sarebbe accorto dello stato di grazia di un artista oppure di un giovane emergente. Ha ancora la sua utilità, ma la canzone è una piccola componente di questo carrozzone enorme, costruito con tante cose da quattro soldi e altre, meno numerose, molto belle. Per la Rai sono fiammate in termini di utili, ma dura una settimana.
Lei è d’accordo il verdetto finale?
Per i giovani a Leo Gassmann preferivo gli Eugenio in via di gioia, più freschi. Il pezzo di Diodato è musicalmente molto rispettabile, quindi va bene così.