Dal Mondo
Gerusalemme. Parte dal villaggio cristiano di Taybeh l’Intifada della preghiera
Continuano le proteste contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele. Quattro i morti e oltre 1.250 i feriti il bilancio, provvisorio, degli scontri tra esercito israeliano e manifestanti palestinesi in varie località dei Territori Occupati, da Gerusalemme a Ramallah, da Hebron a Betlemme fino a Gaza dove Hamas incita all’Intifada. Violente proteste sono scoppiate anche in Indonesia e in Libano, davanti alle ambasciate Usa a Giacarta e a Beirut. Le diplomazie si muovono: al Cairo si è tenuto un vertice tra il presidente palestinese Abu Mazen, quello egiziano Al Sisi e il re Abdallah di Giordania. Il premier israeliano, Bibi Netanyahu, è in Francia per incontrare il presidente Emmanuel Macron. Dalla Lega Araba la richiesta che Gerusalemme est sia capitale della Palestina, mentre dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan giungono forti critiche a Israele accusato di essere “uno Stato terrorista”.
Appello a saggezza e prudenza. Anche la Santa Sede segue “con grande attenzione gli sviluppi della situazione in Medio Oriente”, con speciale riferimento a Gerusalemme, “città sacra ai cristiani, agli ebrei e ai musulmani di tutto il mondo”.
In un comunicato diffuso dalla sala stampa, Papa Francesco “rinnova il suo appello alla saggezza e alla prudenza di tutti ed eleva ferventi preghiere affinché
i responsabili delle Nazioni, in questo momento di particolare gravità, si impegnino a scongiurare una nuova spirale di violenza, rispondendo, con le parole e i fatti, agli aneliti di pace, di giustizia e di sicurezza delle popolazioni di quella martoriata terra”.
Nel comunicato si ribadisce “il singolare carattere della Città Santa e l’imprescindibilità del rispetto dello status quo, in conformità con le deliberazioni della Comunità internazionale e le ripetute richieste delle Gerarchie delle Chiese e delle comunità cristiane di Terra Santa”. Solo una soluzione negoziata tra israeliani e palestinesi potrà, infatti, “portare a una pace stabile e duratura e garantire la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini internazionalmente riconosciuti”.
Da Taybeh l’intifada di preghiera. Una speranza raccolta in pieno dalla comunità di Taybeh, l’unico villaggio interamente cristiano della Palestina, situato a 30 km a nord-est di Gerusalemme. Il piccolo centro, un pugno di case bianche, tre campanili e nessun minareto, conosciuto anche come l’antica Efraim, luogo di cui parla il Vangelo di Giovanni quando narra che Gesù vi si rifugiò dopo che il Sinedrio decise di arrestarlo per ucciderlo. Vi abitano 1.200 cristiani, dei quali 800 cattolici di rito latino, 350 ortodossi e il resto melkiti.
Padre Johnny Abu Khalil, parroco della comunità del Santissimo Redentore, racconta al Sir la personale Intifada pacifica e non violenta del suo villaggio contro la scelta del presidente Trump. Qui, dice, “come anche nelle altre parrocchie della Cisgiordania
non tiriamo pietre ma innalziamo preghiere
perché il Signore illumini le menti di chi ha il potere di prendere decisioni. Quanto stabilito dagli Usa non ci trova in alcuna maniera d’accordo. Questo in preparazione al Natale è un tempo privilegiato: che il Signore accolga le nostre suppliche. Siamo palestinesi di fede cristiana. Gerusalemme per noi è molto importante, così come lo è per i musulmani”. Il villaggio ha condiviso appieno le parole di Papa Francesco sulla Città Santa e le ha fatte proprie. “Gerusalemme – dichiara con voce ferma – non può essere solo degli ebrei.
Con la sua decisione Trump rischia di cancellare oltre due millenni di storia cristiana in Terra Santa e con essa i suoi luoghi più significativi, come il Santo Sepolcro. Così facendo il presidente Usa colpisce anche la presenza cristiana di questa regione”.
Presenza cristiana a rischio. Il parroco latino lo spiega molto bene: in gioco c’è la libertà religiosa e di culto. “Gerusalemme è città santa per i cristiani e come tali dobbiamo avere la libertà di compiere i nostri pellegrinaggi, quindi di professare liberamente la nostra fede così come viene garantito agli ebrei. Con questo atto – sottolinea padre Khalil – per noi cristiani palestinesi sarà molto più difficile ottenere permessi da parte di Israele per recarci nella Città Santa a pregare”. Poco importa, allora, se, come riportato da alcuni media, “Israele intenderebbe dare la nazionalità israeliana a tutti i palestinesi di Gerusalemme, cristiani e musulmani che decideranno di restare nella città santa.
Io sono palestinese e non voglio diventare israeliano – rimarca con vigore il sacerdote -. Voglio invece avere la libertà di professare la mia fede nei Luoghi Santi di Gerusalemme.
Ciò di cui abbiamo bisogno sono nuove generazioni che sappiano accettare l’altro senza porre muri e barriere, abbiamo bisogno dell’incontro dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è, come auspicato dalla comunità internazionale, capitale condivisa di due popoli e due Stati”. “Giovedì 14 accenderemo il nostro albero di Natale con questa speranza. La nascita di Cristo sia segno di pace per tutto il mondo e soprattutto per la Terra Santa”, conclude il parroco, che pure “qualcosa di buono” trova nella decisione di Trump. “Riconoscendo Gerusalemme capitale di Israele ha riportato all’attenzione del mondo la questione palestinese che sembrava essere stata dimenticata. Speriamo che la comunità internazionale possa favorire con vigore una soluzione negoziata giusta e sostenibile del conflitto israelo-palestinese giunto ormai al suo 50° anno”.