Dall'Italia
Gino Bartali, monsignor Sorrentino (Assisi): “Italia riparta sul suo esempio, ritroviamo le radici di fede e solidarietà”
“Questo tempo ci sta tanto provando, ma ci sta anche regalando una nuova possibilità di riscoprire la famiglia, la solidarietà, la premura degli uni per gli altri. Impariamo anche da Gino Bartali, a venti anni dalla morte. Egli ha ancora tanto da dire. E a me piace vederlo sulla sua bicicletta in qualche maniera come se ci dicesse: Ripartiamo tutti, tutta l’Italia da questa cappellina ritroviamo le radici della nostra fede, le radici dell’amore, della solidarietà e ripartiamo. Mettiamoci tutti in bicicletta”.
Lo ha affermato il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, monsignor Domenico Sorrentino, nel corso della Messa celebrata oggi, in diretta streaming, nella cappellina privata di Bartali, custodita nel Museo della Memoria di Assisi.
“Sono sicuro che ce la faremo con l’aiuto di Dio”, ha aggiunto il vescovo. “Spero proprio che il suo messaggio possa dare alla nostra vita uno spirito di solidarietà, di speranza, di bene”. Il vescovo ha poi ricordato le staffette della salvezza tra Assisi e Firenze che Bartali fece per trasportare nella canna della bicicletta documenti falsi per gli ebrei.
“In quel periodo ad Assisi c’erano nostri fratelli e sorelle ebrei che erano costretti a stare in casa, come siamo costretti oggi noi per difenderci da questo nemico insidioso e invisibile che è il Coronavirus. Facciamo l’esperienza della prigionia, della reclusione”, ha spiegato monsignor Sorrentino, evidenziando che “loro lo dovettero fare, perché, questa ideologia veramente incredibile della quale non ci vergogniamo mai abbastanza, aveva messo la loro vita a repentaglio. E lui, Bartali divenne per loro un salvatore insieme con tanti: il vescovo Nicolini, il suo segretario don Aldo, padre Niccacci, i tipografi Brizi, le suore di questa città che accolsero gli ebrei”.
“Si misero tutti in gioco”, il tributo del vescovo: “così deve fare un cristiano, e così deve fare un uomo per essere degno di questo nome: perché – ha concluso – non possiamo essere davvero noi stessi se non aprendoci e diventando capaci di solidarietà”.