Il 2018 si chiude con l’economia europea in rallentamento. L’Italia resta in coda

Sembrava meglio impostato e invece il 2018 chiuderà con una frenata dell’economia, non solo in Italia. Il rallentamento sta colpendo tutta l’Europa. Non è tranquillo il commercio mondiale alle prese con i dazi da Occidente a Oriente. Tornando indietro di 12 mesi, le prospettive di crescita italiane del Pil (Prodotto interno lordo, la ricchezza prodotta in un territorio e in un arco di tempo definito) erano ben più consistenti di quell’1 per cento massimo che verrà formalizzato in primavera con i dati consuntivi.

I numeri dell’economia si possono misurare in tanti modi e racchiuderli in 365 giorni rischia di dare una rappresentazione troppo schematica. Come per un fiume, la portata d’acqua è determinata dal carico nei mesi precedenti di un ghiacciaio o di una fonte, così gli interventi degli operatori economici – nel bene e nel male – possono produrre effetti a distanza. È il caso degli investimenti o delle scorte di magazzino che proiettano riflessi più avanti. È comunque utile riprendere qualche numero.

Il 2017 si era chiuso con qualche segnale promettente.

Il progresso del Pil italiano era stato dell’1,5 per cento (il più alto dal 2010), gli occupati a quota 23,1 milioni seppur con un tasso di disoccupazione all’11,2 per cento. Per il 2018 i grandi centri studi non erano negativi e la Commissione europea ragionava a maggio su una crescita italiana confermata all’1,5 per cento in un contesto di prezzi delle materie prime sotto controllo e un’inflazione ancora statica. Anche se al risparmiatore può sembrare una buona notizia, un costo della vita immobile significa anche consumi deboli, l’occupazione non cresce e chi lavora chiede aumenti molto contenuti. Gli investimenti delle aziende sono prudenti. Per questo

si definisce inflazione “buona” quella che deriva da un’espansione, “cattiva” quella importata da petrolio, tassazioni o fattori non legati alla crescita corretta. La Bce (Banca centrale europea) ha fissato un target di inflazione buona al 2 per cento.

Ma anche nel Vecchio Continente le stime erano inizialmente più positive: in linea con la crescita del 2017 (2,5 per cento il Pil, terzo maggior risultato dalla creazione dell’euro) l’Eurozona avrebbe dovuto confermare il buon ritmo con un incremento dell’occupazione ora ridimensionato a un 2,3% medio. E c’è molta prudenza per i prossimi anni.

Quando un’economia rallenta non c’è mai una sola motivazione e fra queste non ci sono stati in questi mesi il costo del petrolio o i tassi alti. Anche il cambio si è mostrato debole, elemento che solitamente aiuta le esportazioni. Hanno pesato diversi fattori: Brexit e le modalità di distacco di un partner così importante, il voto politico in più Paesi, le tensioni commerciali fra Usa ed Europa, fra Usa e Cina. La convinzione che l’Europa, anche nelle componenti più forti, debba reinventarsi un nuovo ciclo economico con un occhio alle elezioni politiche del maggio prossimo. Con tutte le incertezze del caso.

Lo dovrà fare in un contesto di tassi crescenti (sicuramente non prima di giugno o settembre come ha assicurato il presidente della Bce, Mario Draghi).

L’Italia è alle prese con un tentativo di rilancio che passa da un incremento degli investimenti e della spesa.

L’ultimo trimestre ha riportato in negativo il Pil (-0,1 per cento) e l’ultimo trimestre 2018 non lascia prevedere una ripresa. Perde il passo la Germania accreditata di un 1,5 per cento contro il precedente 2 per cento e 1,6 per cento nel 2019/2020 contro stime precedenti di 1,9 per cento.

I numeri sono solo in apparenza gelidi. Dietro ci sono le attese delle imprese, dei lavoratori, dei disoccupati, delle amministrazioni pubbliche centrali e locali e i cittadini-risparmiatori. Economie e mercati finanziari possono avere nel breve anche divergenze (rallenta l’economia e le Borse tengono o crescono). In un tragitto più lungo, un’economia debole affonda i mercati finanziari. Un cattivo momento mette in difficoltà le imprese che potrebbero non riuscire a restituire i prestiti alle banche. Gli istituti, deboli in Borsa, devono contabilizzare il vero valore di quei prestiti, cercare di recuperarli o espellerli dal bilancio vendendoli sottoprezzo a operatori specializzati nel recupero. È quanto è accaduto in questi anni. Proseguirà nel 2019.