Cesena
Il terzo Reich
Fin dall’inizio c’è un po’ di sconcerto: lo spettatore che entra nell’antro dei laboratori dell’ex Istituto Comandini legge un cartello che avvisa di suoni fortissimi e di luci pericolose per possibili effetti epilettici. Insieme al biglietto vengono anche consegnati dei tappi per le orecchie.
Ci siamo, la nuova installazione di Romeo Castellucci, “Il terzo Reich”, sarà qualcosa di estremo. Vedremo se sarà effettivamente così. Questo pensiero, o un pensiero simile, s’è formato nella mente di chi, martedì 15 e mercoledì 16 giugno, con doppio turno di rappresentazione, si è recato presso il teatro Comandini, realizzato nei locali che ospitarono in passato i laboratori dell’Istituto professionale “Comandini”, per assistere alla nuova produzione della Socìetas (già Raffaello Sanzio).
L’evento, che si giova dei suoni di Scott Gibbons e per coreografia e interpretazione di Gloria Dorliguzzo e Jessica D’Angelo, ha senza dubbio un titolo inquietante: “Il terzo Reich”. Come sempre succede negli spettacoli di Castellucci, il titolo è una suggestione, più che un riferimento diretto: serve a introdurre un tema, che poi prenderà altre vie. Nella sala, oscurissima, in cui si siedono circa quaranta persone, ben distanziate e con mascherina, in un caldo soffocante, i suoni tellurici di Gibbons introducono lo spettatore all’apparizione che sta per avere luogo. Dalla tenebra emerge una figura incappucciata, che dispone una candela e una colonna vertebrale sul pavimento. La candela viene accesa, la danza inizia e alla fine della breve danza la colonna vertebrale viene spezzata. La danzatrice esce, e inizia la proiezione di parole. Semplicemente, parole bianche su sfondo nero. Prima lentamente, poi sempre più velocemente fino a raggiungere una velocità tale che le parole si fondono le une con le altre, perdono i loro confini, diventano una cosa sola. Il ritmo, intanto, diventa sempre più frenetico, i bassi sono veri colpi, trascinano lo spettatore in un’altra dimensione, il tempo si fa indefinito: da quanto siamo seduti? Minuti? Ore? Anni? In realtà, se la parola è creatrice, stiamo plasmando un possibile nuovo mondo: tutto il reale è lì, squadernato di fronte a noi, in una mirabile velocità. La riflessione è sulla violenza del linguaggio: così rapidamente non è possibile memorizzare tutte le parole, solo quelle che ci colpiscono maggiormente rimangono nella nostra memoria, e la loro successione ci impedisce di approfondire, di valutare, di riflettere. In meno di un’ora siamo costretti a provare quello che nella quotidianità accade in un’intera giornata: fiumi di parole, spesso parole false, spesso parole prive di sincerità, che ci assediano, ci colpiscono, possono persino riuscire a trasformarci, senza che noi neanche ce ne accorgiamo. «È l’immagine – afferma Castellucci – di una comunicazione inculcata e obbligatoria, la cui violenza è pari alla pretesa di uguaglianza».
Alla fine, non abbiamo avuto bisogno dei tappi per le orecchie, perché il suono non era poi così alto da sconvolgere, ma la successione delle parole, rapidissime, unite ai suoni di Gibbon ha davvero realizzato un piccolo evento: un’esperienza al confine con l’estasi sciamanica, in cui si perde il senso del confine fra sé e il mondo. Il mondo è fatto di parole, e dobbiamo imparare a saperle frenare, altrimenti saranno loro a frenare noi. Potrà piacere, potrà non piacere, ma la zampata espressiva della Socìetas non delude mai.