Dall'Italia
In memoria di Eugenio Vitali
«Cantai la vita (inscindibile base). / Poi venne l’uomo (il tratto terminale). / Ora respira, penna leggera. / Ti ho logorato il pensiero, penna pesante». È una poesia di Eugenio Vitali, pubblicata nel prestigioso “Almanacco dello Specchio” del 2011, pubblicato da Mondadori e curato da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.
La storia di Eugenio Gino Vitali, nato a Ravenna nel 1934, giornalista pubblicista dal 1990, deceduto nella sua città natale il 24 febbraio 2023, è molto curiosa, ed è il segno di una predestinazione, se così possiamo dire, verso la parola poetica, verso un’espressività che, senza passare attraverso scuole ufficiali, ha fatto di lui un poeta riconosciuto in tutta Italia, senza che questo intaccasse la sua umiltà e la sua autoironia.
Eugenio era falegname: un eccellente artigiano, che, ancora giovane, mentre lavorava sentiva le parole formarsi nel suo cuore e doveva appuntarsele, sul momento, su ogni tipo di supporto: frammenti di carta, listarelle di legno, ovunque. La notte, terminato il tempo del lavoro e della socialità, veniva il tempo della scrittura. Lui sapeva che quelle parole erano importanti, sentiva che non era solo uno sfogo momentaneo.
Inoltre, la poesia per lui era un’esperienza pubblica. Fu così che nacque il libro poetico d’affissione, che apparve, dal 1971 al 1974, sui muri urbani di Ravenna, Cesena e in giro per l’Italia, ottenendo una immediata notorietà e visibilità.
Eugenio ha pubblicato molto negli anni, ma secondo modalità assai eterogenee: libri d’arte, piccole plaquettes, volumi imponenti anche per dimensioni, spaziando dal racconto all’aforisma alla lirica.
Il “suo” spazio era senza dubbio Ravenna: un amore testimoniato da un bellissimo testo, “Ravenna. La durata di un trapasso” (introduzione di Claudio Marabini, illustrazioni di Carlo Zauli, Edizioni del Girasole, 1981), in cui si possono leggere poesie come questa: «La notte ha / fornaci rosse più del fuoco / e la vera mano vive clandestina. / La terra è / a filo d’erba / e non ha più altezza per un tetto». Immagini efficacissime, forma metrica originale, lontana da una tradizione più o meno paludata, senso del mistero per l’esistenza che nasce dall’osservazione del mondo attorno a sé.
Con l’intelligenza artistica che lo caratterizzava, un altro grande poeta romagnolo, Giovanni Nadiani, ebbe a scrivere così dell’arte di Vitali: «Sfiancante potrebbe essere la fedeltà a un dire sempre più annichilito dai segni inconfutabili di un circondario quasi irriconoscibile, ma il compito doveroso di un grande, doloroso amore per esso e le sue sorti – perché in fondo questa è la sostanza della poesia di Vitali – non lascia alternative: contro lo “schermo di una nebbia che ha il parcheggio dentro il cuore” si abbatte, lacerandolo, il volo delle rondini, zigzagante tra le poesie, tra passato e presente, ispiratrici dalle loro lontane terre (di un “già stato”) di una possibile, sempre evocata diversa condizione» (dalla prefazione a “Gli occhi del tempo”, edizioni Mobydick, Faenza 1999).