La giurista cesenate Geraldina Boni in Vaticano: “L’obbedienza cristiana non è mai acritica e passiva. La libertà, nel rispetto del Magistero, ne è elemento distintivo”.

C’è una studiosa cesenate, docente di diritto canonico all’università di Bologna, tra coloro che controllano da un punto di vista formale le leggi che vengono promulgate dal Papa. È Geraldina Boni, cultura indefettibile ed eloquio affascinante, tanto da incantare anche un pubblico digiuno di una materia così delicata e complessa come il diritto canonico.

Com’è avvenuto che il 22 marzo 2011 è stata nominata da papa Benedetto XVI Consultore del Pontificio consiglio per i testi legislativi?

È stata una sorpresa, non preannunciata in alcun modo: ho appreso della mia nomina da L’Osservatore Romano. Certo un onore e una gratificazione personale.

Qual è il suo compito di Consultore?

Mi vengono richiesti pareri su questioni specifiche. Ad esempio ho lavorato a lungo e svolto le mie considerazioni su un progetto relativo alla revisione del Libro VI del Codice di diritto canonico vigente (del 1983) che concerne il diritto penale. Spesso si è annunciata la promulgazione di questa riforma da parte del cardinale Coccopalmerio, presidente del Pontificio consiglio: ma non è ancora avvenuta. Altre richieste riguardano questioni più circoscritte, dubbi di diritto, controlli formali sulla legislazione episcopale, per esempio. Il mio ruolo, come il termine indica, è meramente quello di fornire una consulenza tecnica: le decisioni sono prese altrove.

Rispetto agli altri pontefici, Francesco promulga molte leggi?

Tutti i Papi promulgano leggi: il diritto cambia con la società ecclesiale e con le differenti esigenze umane. Nessun Sommo Pontefice può però modificare i fondamenti immutabili di diritto divino che a lui anzi spetta difendere e promuovere. Universalmente conosciuti sono ad esempio i cambiamenti che papa Bergoglio sta apportando all’organizzazione della Curia romana. Anche se non posso non rilevare una certa farraginosità e scarsa coerenza dei medesimi, soprattutto in materia economico-finanziaria. Come vede, non esito ad esprimere le mie perplessità: reputo mio dovere la critica costruttiva. Un diritto mal formulato non risolve, ma crea problemi. 

Solo due donne in un elevato numero di chierici e religiosi e pochi laici. Come mai?

Spero tanto che non siamo state scelte in quota rosa, ma per la nostra competenza… Certamente non molte donne insegnano diritto canonico in Università (ma anche per gli altri settori disciplinari, come si sa, la situazione non è ‘rosea’ in questo senso). Il diritto canonico è stato per secoli esclusivo appannaggio clericale: è importante, però, che se ne occupino dei laici, giuristi secolari, sia per lo sguardo diverso e complementare che possono offrire, sia, va detto, per la loro maggiore indipendenza.

Occorre dare dimostrazione di provata fede per far parte di quell’organismo?

Non mi è mai stata richiesta alcuna professione di fede. Sono stata invitata, anche da giovane ricercatrice universitaria, a fare conferenze ed esporre le mie opinioni: e mai nessuno mi ha imposto qualcosa o condizionato in alcun modo. Certo, credo che la mia adesione alla Chiesa cattolica sia nota: ma l’obbedienza cristiana non è mai acritica e passiva. La libertà, nel rispetto del Magistero, ne è elemento distintivo.

Ha occasione di vedere il Papa?

Finora non ho mai avuto l’occasione. Quest’anno si è svolto dopo molti anni a Roma il congresso internazionale dell’associazione che riunisce i canonisti di tutto il mondo e nel cui consiglio direttivo sono stata rieletta. Ma il Papa ha deciso di non partecipare, inviando un messaggio scritto di saluto. È intervenuto invece il Segretario di Stato.

Quanto c’è di fatica e studio e quanto di soddisfazione in incarichi come quello a lei affidato?

Molto studio: ma, devo ammetterlo, nessuna fatica. Ho scelto di occuparmi di diritto canonico per passione e per passione continuo a coltivarlo. Voglio però ribadire che il mio impegno principale è l’insegnamento universitario: e dagli studenti, a Bologna e a Ravenna, ricevo le soddisfazioni più grandi.

In passato ha presentato una relazione al XXXIII congresso nazionale di Diritto canonico dedicato a Il matrimonio tra cattolici e islamici. Quali sono per sommi capi le implicazioni del diritto nei casi di matrimonio tra esponenti di fedi diverse?

Me ne sono occupata perché i matrimoni tra cattolici e musulmani (di solito donne cattoliche e uomini musulmani, visto che la donna nell’islam non può sposare se non un musulmano) si stanno diffondendo. Numerose sono le problematiche giuridiche aperte. Il diritto canonico (contrariamente alla posizione di chiusura di altri diritti religiosi) consente la celebrazione a certe condizioni poste a garanzia della fede del cattolico e dell’educazione della prole, cui è subordinata la necessaria dispensa del vescovo. Stante però l’elevato numero di fallimenti di queste unioni, dovuti principalmente alla diversissima concezione di matrimonio nell’islam (poligamia, ripudio, posizione non egualitaria della donna…) da cui il musulmano può essere condizionato, la Chiesa italiana ha invitato alla cautela nella concessione delle dispense: si celebra il matrimonio canonico solo quando l’unione dà prova di stabile realizzazione, per evitare il moltiplicarsi di matrimoni che si rivelino nulli (con effetti poi gravosi, soprattutto per la donna cattolica).

Tra le sue materie di studio e di pubblicazione c’è anche la nullità del matrimonio religioso. C’è qualcosa di nuovo a riguardo?

Qui tocchiamo un punto dolente. Due anni or sono è stata promulgata una riforma del processo di nullità matrimoniale che, anche per i non pochi e gravi difetti della sua redazione tecnica (ovviamente non imputabili al Papa, mal consigliato), rischia di pregiudicare il corretto svolgimento del processo di nullità matrimoniale. E quest’ultimo, frutto di un’evoluzione millenaria, è posto a garanzia dell’indissolubilità del matrimonio. Ho scritto molto su questo tema e in maniera fortemente critica, indicando quelli che a mio avviso (ma non sono sola, tutt’altro) sono i difetti da correggere più urgentemente: considero questa denuncia un mio dovere di onestà intellettuale come canonista e una mia responsabilità come cristiana.

Uno dei suoi contributi titola “Il contributo del diritto canonico al dibattito sulla democrazia”, quali relazioni ci possono essere tra i due ambiti?

Nella Chiesa non può esserci democrazia, almeno nel senso in cui generalmente la si intende: la concezione del “potere” non sarà mai ascendente ma discendente, cioè esso viene da Dio e non dal popolo. Il paradosso è però che i pilastri delle regole democratiche (la rappresentanza, la disciplina del diritto di voto, l’equilibrio tra organi monocratici e collegiali, la garanzia delle minoranze) sono stati elaborati e alimentati in notevole parte dalla riflessione di teologi e canonisti.

Si è occupata ampiamente anche della rinuncia di Benedetto XVI. Quali scogli di natura giuridica si ponevano?

Nessun ostacolo, la rinuncia di Benedetto XVI è perfettamente valida, lecita e contemplata dal diritto canonico. Semmai il libro ha rappresentato una reazione a imprecisioni, letture distorte, travisamenti che tale gesto ha suscitato, anche favorite da certe ambiguità, fra cui soprattutto il titolo di “papa emerito” (il papa è uno solo) attribuito a Ratzinger, che potrebbe oscurare l’unicità del successore di Pietro, titolare del potere supremo sulla Chiesa universale. Nella storia della Chiesa si sono sempre aborrite e temute bicefalie nel governo della Chiesa. Nel mio studio miravo inoltre a proporre riflessioni sullo status del papa che ha rinunciato, argomento evidentemente non molto approfondito sinora, trattandosi di un gesto che, pur normativamente regolato, resta (e personalmente spero resti), in via di fatto, ‘straordinario’. Inoltre proponevo alcune soluzioni giuridiche, colmando la lacuna esistente, laddove la Sede Apostolica sia impedita, non potendo il Sommo Pontefice adempiere al suo ufficio (ad esempio in caso di incoscienza del Papa, malattia che priva dell’uso di ragione). 

Ha scritto un saggio anche su digiuno e astinenza nel diritto canonico. È necessario legiferare anche su questo?

La Chiesa ha sempre legiferato su questo: i digiuni e le astinenze hanno scandito il calendario nei secoli, contribuendo a disegnare la fisionomia dell’Europa cristiana. C’è da dolersi, semmai, che oggi il cattolicesimo, per una qualche ansia di modernizzazione – che però assume spesso i contorni di una non troppo meditata secolarizzazione – esiti a riproporre ai suoi fedeli precetti alimentari che sono distintivi dell’identità cristiana (ad esempio, ci si astiene dalla carne il venerdì anche perché il figlio di Dio ha offerto la sua nella Passione). È vero che l’importante è l’atteggiamento interiore e non la pratica legalistica (Gesù ha detto che non è quello che entra ma quello che esce dalla bocca dell’uomo a contaminarlo), ma la coesione di un popolo passa anche attraverso pratiche comuni e condivise di rinuncia.

È interessante il suo studio a proposito della canonizzazione di coloro che hanno combattuto, e dunque, ucciso, in nome della fede…

Non si tratta di aver ucciso in nome della fede. I santi combattenti hanno semmai difeso la fede, ma soprattutto hanno reso un’eroica testimonianza autenticamente cristiana nella condizione più terribile che la condizione umana conosca: la guerra. Essi hanno risposto alla chiamata universale alla santità esaltata dal Concilio Vaticano II in circostanze drammatiche, realizzando un ministerium pacis inter arma che diviene annuncio del Vangelo quanto mai efficace e credibile.

Cosa c’è di nuovo nel diritto canonico del terzo millennio?

C’è sempre qualcosa di nuovo nel diritto canonico perché esso deve continuamente adattarsi ai mutamenti della realtà umana. È un diritto al servizio di un fine ambiziosissimo, la salvezza delle anime, a cui ogni norma, anche la più tecnica, deve tendere, con giustizia e misericordia: la misericordia senza la giustizia infatti diverrebbe “buonismo distruttivo” (Papa Francesco) e una Chiesa senza diritto sarebbe una Chiesa dell’arbitrio.

Lei passa la sua vita tra Bologna, Ravenna e Roma. Cosa la lega ancora alla sua città?

La cosa per me più importante: la mia famiglia. Anzitutto mio marito, i miei figli e mia nuora e il nipotino in arrivo. Ma anche i miei fratelli, suoceri, cognati, nipoti: una grande e bella famiglia di cui sono orgogliosa e senza la quale non avrei la serenità per svolgere bene il mio lavoro. Io, poi, vivo benissimo a Cesena, che non cambierei con nessuna città al mondo.