Dal Mondo
La preghiera per la pace ieri al Santuario di Berdychiv. Padre Mykhalkiv, “è la diplomazia del dialogo”
“Né prima né dopo la Messa è partito l’allarme e siamo potuti rimanere nella chiesa principale del santuario. Quello che è stato importante per tutti noi è vedere la grande serenità del cardinale. Una serenità che proviene dalla fede. Una serenità che ci ha dato speranza, sostegno, vicinanza. È la serenità di chi capisce che cosa succede, ma sa trasformare nella fede questa condivisione in speranza”. A raccontare al Sir come è andata ieri la Messa celebrata dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin nel santuario della Madonna del Carmine, a Berdychiv, è padre Ruslan Mykhalkiv, rettore del Seminario della diocesi di Kyiv-Zhytomir. Al terzo giorno della sua visita nel Paese come Legato pontificio, il cardinale Parolin è arrivato nel monastero carmelitano accompagnato dal nunzio apostolico monsignor Visvaldas Kulbokas. Ad attenderlo c’erano rappresentanti delle autorità e del corpo diplomatico, pellegrini provenienti da diverse parti dell’Ucraina e delegazioni dall’estero. “Oggi tutta l’Ucraina vive l’ora oscura del Calvario”, ha detto il cardinale. “Mi si spezza il cuore pensare che mentre siamo qui, in un’altra parte del Paese, continuano feroci battaglie e i bombardamenti non si fermano”.
A nome di papa Francesco, Parolin è arrivato in Ucraina soprattutto per chiedere al popolo ucraino di “non perdere mai la fiducia e la speranza in Dio”, ha detto nell’omelia Parolin, “soprattutto oggi, quando sembra che il male abbia il sopravvento, quando gli orrori della guerra e il dolore per le numerose vittime e le massicce distruzioni mettono in crisi la fede nella bontà divina, quando le nostre braccia cadono e non abbiamo nemmeno più forza per pregare”. “Al termine della Messa – racconta padre Mykhalkiv – nel cortile del santuario, il cardinale ha benedetto le statue di San Michele Arcangelo, portate dal vescovo Skomarovskyj dal Santuario di San Michele Arcangelo sul Monte Gargano in Italia e destinate a ogni diocesi ucraina. È stato un segno molto forte, perché ci ricorda che quello che stiamo vivendo non è solo una battaglia di giustizia ma anche una battaglia che ha un risvolto spirituale. Questo santuario ci ricorda che la battaglia principale, forse quella più importante, è quella che si combattendo nei nostri cuori. È una battaglia difficile perché non si vede.
Ci spieghi meglio, ci racconti quale Ucraina ha trovato in questi giorni il cardinale…
Prima di tutto, si vive la mancanza. I lutti sono la mancanza più grave. Perché le altre mancanze con il tempo si possono in qualche modo guarire. Ma quando mancano le persone, è per sempre. Ci sono poi i feriti, i soldati tornati dal fronte feriti nel corpo e nell’animo. Mancano poi la prospettiva di una vita sicura, la possibilità di guardare al futuro, nel domani. È una sfida grandissima. A tutto questo si aggiunge la possibilità per gli uomini di partire per il fronte da un momento all’altro. Da un giorno all’altro, ci si può ritrovare nell’esercito. Questa possibilità tocca, purtroppo, anche a noi preti. Se veniamo richiamati, dobbiamo andare. E non è detto che saremo impiegati come cappellani.
E poi ci sono i prigionieri di guerra, tra cui anche tantissimi civili. Una realtà che sta molto a cuore alla diplomazia vaticana.
Dicono che i prigionieri civili siano addirittura 15.000. La difficoltà più grande è quella che i russi non dicono nulla. Non sappiamo quindi chi è vivo e chi è morto. Non sappiamo dove sono queste persone. Anche dei due sacerdoti liberati recentemente, non si sapeva nulla, né se fossero vivi né dove erano stati portati. Nulla.
Lei conosce personalmente qualche famiglia che ha un familiare prigioniero?
Certo. Anche perchè ci sono soldati sui campi di battaglia che non rispondono. E non si sa se sono vivi o sono morti. Per chi vive in questa sospensione, è un dramma molto forte. Nella parrocchia del nostro seminario, ci sono due parrocchiane che hanno perso i figli. All’inizio pensavano e speravano che fossero vivi. Poi hanno scoperto che erano morti in prigione, la prima dopo due anni e l’altra dopo due anni e tre mesi. Un ragazzo si è ucciso. L’altro è morto dopo però averlo fatto soffrire tantissimo e in maniera grave. Ogni famiglia ha storie simili.
Lei ha visto in questi giorni il cardinale Parolin? Che idea si è fatta della diplomazia vaticana? Qual è la caratteristica che contraddistingue la diplomazia degli uomini di papa Francesco?
Non mi sento uno specialista e non saprei distinguere i diversi tipi di diplomazia che esistono. Per quello che ho visto e capito, proverei a dire che è una diplomazia di dialogo, che cerca sempre e in qualche modo di trovare un posto in cui sia possibile parlare e cercare di capire l’altro. È molto difficile farlo, in questo mondo e in questo momento, sicuramente. Perché è un momento in cui solo chi parla più forte, viene ascoltato. E perché questa è una terra che ha visto a un certo punto entrare dei soldati, che hanno iniziato a sparare, bruciare case, uccidere tante persone. In queste condizioni, di che cosa si dovrebbe parlare? È vero, è difficile. È molto difficile trovare un punto in cui sia possibile parlare e ascoltare. Questa è la diplomazia di papa Francesco: cercare sempre di portare verso qualche dialogo. Direi così, è una diplomazia del dialogo.