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Libano. Vincent Gelot (Œuvre d’Orient): “Paese al collasso totale, i bisogni sono multifattoriali e in tutti gli ambiti”
“Abbiamo l’impressione che la comunità internazionale e l’opinione pubblica internazionale non abbiano piena consapevolezza della crisi umanitaria in corso in Libano che minaccia l’esistenza stessa di questo Paese. Si guarda solo al conflitto armato tra Hezbollah e Israele, ma non si vedono i danni che questo conflitto (e non da oggi) causa sui civili e sugli sfollati. Siamo di fronte a una crisi umanitaria estremamente grave”. A parlare dall’altra parte del telefono è Vincent Gelot, responsabile dei progetti dell’Œuvre d’Orient per i paesi Libano e Siria. “Se il Libano sopravvive – dice serio – è perché ci sono donatori in diaspora e organizzazioni internazionali che supportano la società civile. Il Libano è un Paese molto importante per la regione. È il Paese che ha più libertà. Presenta un mosaico religioso molto interessante. È un’opportunità per l’intera regione. Quando papa Giovanni Paolo II venne in Libano, disse che questo Paese era un messaggio per il mondo. Non si può perdere questa eredità per la regione del vicino e Medio Oriente”.
Gelot, ci faccia il punto sulla situazione umanitaria?Vivo e lavoro in Libano da otto anni. Il Paese era già in una situazione molto grave prima della guerra, vale a dire prima del 7 ottobre dello scorso anno. Il Libano già viveva una terribile crisi, con le proteste di piazza nell’autunno del 2019 contro le élite politiche del paese. Il blocco bancario per tutti i libanesi e il crollo della valuta locale. Poi c’è stata l’esplosione del porto di Beirut il 4 agosto 2020. E subito dopo il Covid che è stato gestito in modo catastrofico. Infine questa guerra iniziata lo scorso anno e che ha avuto una accelerazione nelle ultime due settimane e mezza. La situazione in Libano oggi è da incubo. Non ho altre parole che mi vengono per descriverla.
Può darci qualche cifra?Oggi ci sono 1.200.000 sfollati interni per un Paese di 6.000.000 di abitanti. Significa che il 20per cento della popolazione libanese è sfollata. Oltre tutto, il Libano ha già accolto 2.000.000 di profughi siriani. Inoltre questo Paese, purtroppo, non ha uno Stato funzionante: da due anni non c’è presidente della Repubblica e nessun governo che opera a pieno titolo. Il settore associativo libanese, le istituzioni religiose e in particolare le istituzioni cristiane, le scuole, i centri per disabili e gli anziani, le opere sanitarie e sociali, gli ospedali, i dispensari: sono loro oggi che portano il peso di questa crisi e il peso di questa guerra.
Sul fronte della sicurezza, com’è la situazione?Era già grave prima del 7 ottobre dello scorso anno. Il sud del Libano era già una zona di guerra. I villaggi del sud erano già bombardati. Oggi la situazione è notevolmente peggiorata a seguito dell’estensione del raggio degli attacchi aerei israeliani che stanno colpendo anche nella pianura della Bekaa, nella regione tra Sidone e Tiro, e poi anche nella periferia sud di Beirut. A questo si aggiunge l’annuncio di un’operazione di terra nel sud del Libano, di cui non sappiamo nulla. Si tratterà di un’operazione localizzata in alcune zone del Libano? Sarà un’annessione? Sarà un’occupazione? E se così, significa che le popolazioni sfollate da quelle terre, non potranno tornare a casa? Non sappiamo niente. Ci sono parti di Beirut in cui la vita continua, ma con questa tensione, questa paura, questa preoccupazione.
Quali sono le emergenze?
È molto difficile dirlo perché di fatto siamo di fronte a un Paese al collasso totale. I bisogni sono multifattoriali e in tutti gli ambiti. Direi che la prima emergenza è aiutare gli sfollati. Sappiamo che lo sfollamento è uno sradicamento. Quando ricevo le persone nei centri sostenuti dall’Oeuvre d’Oriente, ho di fronte a me persone che hanno perso tutto. Spesso le loro case sono state colpite. Arrivano dopo aver vissuto traumi profondi, in lacrime, a bordo di macchine che hanno riempito di poche cose. Non hanno, non sanno dove andare e sono donne, bambini, anziani. Questo è il volto di una crisi umanitaria che rischia di passare in secondo piano.
Quali le priorità?La prima è l’accoglienza degli sfollati, offrendo loro aiuti come alloggi, cibo e una scolarizzazione per i bambini. La seconda emergenza è la cura dei feriti. C’è un solo ospedale ad avere un reparto grandi ustionati. E questo ospedale oggi accoglie tutti i civili che rimangono vittime di bombardamenti aerei. Arrivano in condizioni gravissime, con ustioni a volte del 70/80 per cento del corpo. La terza emergenza è quella che stanno vivendo le popolazioni che restano nei loro villaggi, perché non vogliono andarsene. Parlo in particolare dei villaggi cristiani che si trovano al confine con Israele. In assenza dell’esercito libanese, hanno organizzato un’autodifesa per impedire alle milizie Hezbollah di entrare per sparare razzi da oltre confine. Questi villaggi hanno fatto la scelta di non schierarsi, ma oggi sono tagliati fuori dal mondo. Siamo molto preoccupati in particolare della situazione nel villaggio cristiano di Rmeish dove sono bloccate 5.000 famiglie che accolgono gli sfollati dei villaggi circostanti. Non hanno elettricità, non hanno cibo, non hanno medicine, non hanno niente. Abbiamo inviato loro convogli umanitari scortati dall’esercito libanese. Se lasciano il loro villaggio, temono di non potervi più fare ritorno.