Dall'Italia
Migranti e decreto sicurezza: da Palermo il grido di dolore dei ragazzi “harraga”. Neomaggiorenni rischiano di finire in strada
(da Palermo) “Ho paura, molta paura. Di rimanere senza casa, senza lavoro. Perché quando scade il permesso ci buttano fuori e anche se avessi i soldi gli italiani non ci affittano stanze. Ci penso ogni giorno. Il futuro non so cos’è, perché è minacciato. Il presente dipende dai documenti”. Daouda ha 19 anni, è del Mali ed è un ragazzo “harraga” che vive a Palermo da due anni, inserito in un circuito di accoglienza e inclusione sociale. La sua vita, come quella di tanti suoi coetanei che hanno affrontato il viaggio da soli, è ora a rischio a causa degli effetti del Decreto sicurezza e immigrazione. In arabo gli “harraga” sono i ragazzi che “bruciano le frontiere”, ossia disposti a tutto pur di migrare. Il 15 gennaio saprà se il suo ricorso, dopo un diniego, sarà accettato dal giudice. Ad agosto prossimo dovrà lasciare la casa di accoglienza dove alloggia, gestita dai valdesi. Douda è sbarcato a Pozzallo quando aveva 17 anni. Oggi parla italiano, ha preso la licenza media, svolto un tirocinio lavorativo di tre mesi in un B&B palermitano dove puliva le stanze e preparava le colazioni, attirando le simpatie dei turisti. Ora sogna di fare un corso per diventare pizzaiolo. Ha uno sguardo caldo intonato al maglione che indossa, giallo come il sole di mezzogiorno.
“Sono molto preoccupato. Ho paura perché quando non c’è più umanità tra gli umani è pericoloso, vieni trattato come un animale”. Quando gli diciamo che per effetto del Decreto rischia di diventare irregolare e, se trovato senza documenti, di essere rimpatriato, è quasi incredulo. Cerca di sdrammatizzare l’emozione ma intanto strofina più volte le mani sulle ginocchia, agitato. “Mi mandino ovunque ma a casa non posso più tornare”. In Italia sono 12.000 i minori migranti non accompagnati accolti nei centri, il 59% vicino alla maggiore età. Il 42,8% sono in Sicilia, 630 solamente a Palermo. Allo scadere dei permessi e al compimento del 18° anno rischiano di finire in strada. Daouda parla più di un’ora in italiano con costruzioni sintattiche a volte imprecise, ci tiene a raccontare tutti i dettagli. Il padre, con tre mogli e 15 figli, è stato ucciso da familiari per una contesa su un terreno. Così lui a 15 anni è dovuto fuggire in Costa d’Avorio, lo stavano cercando per vendicarsi. “Mi hanno trovato anche lì e sono dovuto scappare di nuovo: ho passato il Niger, il deserto e la Libia. Siamo stati senza acqua e cibo, poi 29 giorni in una prigione a Tripoli. Minacciavano di ammazzarci con i bastoni se non pagavamo. Mi sono fatto prestare i soldi per uscire dal carcere”. “Ci hanno costretto con le pistole a salire sul barcone ma io non volevo. Avevo visto in tv che si rischia di morire in mare”. “Eravamo 126, ci ha salvato una nave tedesca e siamo sbarcati in Sicilia. Ho ringraziato Dio e chiamato mia madre. Ha pianto tanto. Non mi sentiva da cinque mesi e pensava fossi morto”. Storie che sembrano tutte uguali se riassunte in cinque righe. Ma dietro ciascuna c’è un vissuto duro, complesso e profondo. Il coraggio del bambino che ha superato tutti gli ostacoli per diventare uomo, il viaggio iniziatico e l’archetipo dell’eroe.
“Ragazzi harraga”, un progetto esemplare. Daouda è uno degli oltre 400 minori migranti non accompagnati seguiti dal progetto “Ragazzi harraga” realizzato dal Ciai (Centro italiano aiuti all’infanzia) nel quartiere Ballarò, nel cuore “sincretico” di Palermo, realizzato in rete con numerose realtà associative e istituzionali e il finanziamento di 9 fondazioni. Un progetto esemplare e variegato, ricco di buone prassi replicabili ovunque, che è riuscito in soli due anni a creare inclusione reale: 80 tirocini lavorativi con borse lavoro presso aziende, 21 ragazzi assunti, 240 inseriti in laboratori interculturali e di cittadinanza attiva, una casa dove dormono 8 neo-maggiorenni e una foresteria per accogliere turisti e volontari nel complesso Casa Santa Chiara dei salesiani. Hanno la possibilità di imparare l’italiano, di prendere la licenza media e chi vuole di continuare gli studi. Ognuno ha una cartella sociale che valorizza il percorso di ogni minore, a cui gli operatori dei servizi pubblici e privati possono accedere. Un progetto modello che rischia di diventare inutile.
Tutti i ragazzi hanno una storia importante da raccontare. Lamine, Cherif, Filly, Rita, Amadou, Said. Alcuni indugiano sui particolari, altri ammutoliscono appena si parla dei motivi della fuga, dei centri di detenzione in Libia o della traversata in mare. Ci sono ferite aperte che non possono essere esposte con nonchalance alla luce del sole. Per questo Alessandra Sciurba, coordinatrice del progetto “Ragazzi harraga”, prima di dare loro la parola, li rassicura: “Dite solo ciò che vi sentite di dire”. È lei a sintetizzare per tutti: “Il nostro è un grido di dolore per il contesto socio-culturale in cui siamo precipitati”. “Avevamo raggiunto risultati straordinari – spiega – ma negli ultimi mesi è successo qualcosa di eclatante: sono iniziati gli episodi di razzismo, le discriminazioni quando si va a cercare a casa in affitto per i ragazzi. Tutto questo aggravato dalle nuove problematiche aperte dal decreto sicurezza, che produrrà maggiore clandestinità. Siamo frustrati e arrabbiati perché tutto questo lavoro rischia di essere vanificato. È un disastro”. Dopo aver fatto un percorso così ricco e fruttuoso tutti i neo-maggiorenni sono oggi in pericolo. “Stiamo facendo una lista per cercare di aiutarli – precisa Sara Di Rosa, dell’associazione Send, in rete con il Ciai -. Dobbiamo chiedere uno sforzo in più alle aziende dove hanno svolto i tirocini. L’unica via di salvezza è ottenere un permesso per motivi di lavoro”.
Alla ricerca di un lavoro. Chi ha qualche speranza in più è Lamine, 19 anni, dal Senegal. Al momento sta facendo un tirocinio come magazziniere a Leroy Merlin, dopo averne fatto un altro come cameriere. Ha preso la licenza media e frequenta il terzo anno di ragioneria. Ha perfino vinto un premio letterario con un racconto in cui descriveva il suo viaggio. Quando gli chiedo se vuole diventare uno scrittore ride: “Mi piace scrivere e studiare ma spero che mi facciano un contratto. Non voglio tornare indietro, voglio combattere per la mia vita”. “A volte quando vado a cercare lavoro mi cacciano ma io non mi scoraggio. Sono un ragazzo positivo. Ci sono buoni e cattivi in tutto il mondo”. Lamine legge ogni giorno le notizie sul suo smartphone per essere informato sui temi che lo riguardano: “Voglio capire cosa sta succedendo, non posso restare con il cervello chiuso”. “Mi sono sentito un po’ male quando qualcuno ha detto che per noi è finita la pacchia. Ma non possiamo fare altro che aspettare e rispettare le leggi, anche se non sono giuste”.
A Casa Santa Chiara, nel complesso dei salesiani, altra azione del progetto “Ragazzi harraga”, vivono invece Cherif, 20 anni, dal Senegal, e Filly, 19 anni dal Gambia. Nel grande salone con angolo cottura dove abitano insieme ad altri 6 neo-maggiorenni ostentano sicurezza da uomini vissuti. Ma appena si comincia con le domande legate agli effetti della nuova normativa non rispondono. Gli occhi si riempiono di lacrime trattenute. Entrambi sono alla ricerca di un lavoro e con i permessi in scadenza. Se si ritroveranno senza documenti hanno già in mente una soluzione radicale ma formalmente impossibile per via del Regolamento di Dublino.“Dormire in strada è pericoloso, non ci interessa vendere l’erba o diventare criminali. Tanto vale rischiare e cercare di andare in Francia o in Spagna”. L’anagrafe palermitana, ad esempio, si rifiuta di iscrivere “perfino chi era già detentore di permesso per motivi umanitari prima dell’entrata in vigore del decreto – spiega Angela Natoli, della cooperativa Libera-mente –. Gli uffici hanno iniziato ad agire come se il decreto avesse effetto retroattivo. Questa situazione sta creando tante criticità”.
Alcuni sono più fortunati. Spesso solo per una casuale questione di tempistica. Rita, 24 anni, nigeriana, e Amadou, 20 anni, della Guinea Conakry, frequentano le scuole superiori. Said, 21 anni, del Camerun, è iscritto al primo anno di università, facoltà di scienza del turismo, e ha già superato con successo 6 esami. Tutti e tre hanno i permessi in regola e lavorano nella nuova foresteria con 25 posti letto annessa alla Casa Santa Chiara, che in estate aveva accolto i volontari di Libera e del Ciai. “Il finanziamento di questa parte del progetto dura fino a settembre 2019 – dice Valeria Leonardi, del Ciai -, poi cercheremo di trasformare questa esperienza in una start up profit”. Rita, Amadou e Said ci accompagnano a vedere le stanze appena ristrutturate, ciascuna con tanti letti a castello. Le hanno chiamate con i nomi di grandi personaggi del mondo cattolico: Stanza Speranza don Luigi Ciotti, Stanza Accoglienza don Andrea Gallo, Stanza Dialogo Chiara Lubich. Sanno tre lingue e hanno chiari i loro obiettivi: Rita vuole diventare direttrice d’albergo. Said ha come priorità la laurea e un impiego nel settore turistico. Amadou preferirebbe fare la guida turistica o lavorare nel settore marketing. Ci tengono a parlare perfettamente l’italiano e non il siciliano. Anche se, ridendo, ammettono che qualche “mizzica” con gli amici palermitani di Ballarò “ogni tanto ci scappa”. Il futuro? “Boh, non lo so. Non ho certezze”.