Missione a km zero, famiglia al centro. Fazzini: “un nuovo modo di essere Chiesa”

Un modo originale di vivere la famiglia; una modalità diversa, nuova, di interpretare l’appartenenza ecclesiale. Un po’ in tutta Italia cominciano a prendere piede quelle esperienze che Gerolamo Fazzini racconta nel suo libro “Famiglie missionarie a km zero. Nuovi modi di ‘abitare’ la Chiesa”, edito da Ipl. Il volume è stato presentato giovedì 17 ottobre al Centro missionario Pime di Milano. Fazzini, classe 1962, è giornalista, saggista, autore televisivo. Lavora come consulente di direzione per il settimanale “Credere” e il mensile “Jesus”, ed è editorialista di “Avvenire”. È autore di vari libri e docente a contratto di Teoria e tecniche del giornalismo all’Università Cattolica di Brescia. Tra i mille impegni, lo si ricorda anche per aver ideato e diretto il Festival della missione.

Famiglie “con le porte aperte”, che “hanno deciso di farsi gli affari degli altri”. Cosa hanno di speciale le famiglie missionarie a chilometri zero? Concretamente, come vivono la loro quotidianità?

Queste famiglie, per tanti aspetti assolutamente normali, hanno di speciale il fatto di vivere in un ambiente parrocchiale ed essere un “segno” per lo stile con il quale vivono (riferimento forte alla Parola di Dio, servizio e apertura al diverso) prima ancora per le cose che fanno.Concretamente, tutti (o quasi) i papà e le mamme lavorano a tempo pieno e le giornate sono molto simili a quelle di tante altre famiglie (impegni dei figli, servizio in parrocchia ecc.).Una loro peculiarità sta nella cura delle relazioni con chi c’è attorno, a partire dalle occasioni all’apparenza più banali: gli incontri con le mamme fuori dalla scuola o in piscina con i figli… Prima che annunciare il Vangelo con le parole, queste famiglie lo vivono testimoniandolo soprattutto nel fare sentire l’altro a casa.

Nel suo libro racconta dieci storie originali. Qualche curiosità?

Ogni storia ha degli aspetti comuni con le altre, ma anche dei tratti di assoluta originalità. C’è chi, ad esempio, vive in stretto rapporto con il parroco, con il quale la famiglia – pur vivendo in appartamenti vicini ma, ovviamente, distinti – condivide il pasto serale e momenti di preghiera insieme. Altre famiglie abitano spazi parrocchiali (chi in oratorio, chi in strutture legate ad esempio alla Caritas) ma senza il prete e tuttavia mantenendo sempre un forte legame con la Chiesa locale, che è uno degli elementi essenziali nel Dna delle famiglie missionarie a chilometro zero.Curiosità? Ci sono famiglie che hanno alle spalle esperienze di 2-3 anni di missione “ad gentes” (Brasile, Venezuela, Perù, Kenya…), altre invece non sono mai partite (e molto probabilmente non partiranno mai). Un’altra particolarità è che questa esperienza abbraccia famiglie dalle provenienze ecclesiali disparate: c’è chi viene dall’Azione cattolica o dalle parrocchie, chi da Comunione e liberazione, qualcuno ha fatto il percorso scout in Agesci, altri appartengono all’Operazione Mato Grosso o all’Ordine francescano secolare… Una “biodiversità ecclesiale” molto sorprendente e affascinante.

Aspetti positivi e difficoltà di vivere con questo stile?

Tra gli aspetti positivi c’è indubbiamente il fatto che i figli di queste famiglie imparano quasi per “osmosi”, senza bisogno di grandi discorsi, il significato profondo di atteggiamenti quali l’accoglienza, il rispetto della diversità come una ricchezza, il servizio ai più deboli… Lo stesso vale per quanti frequentano queste famiglie: ricevono una testimonianza che è tanto ordinaria nella forma quanto potente nell’impatto. Un altro elemento importante è che – lo hanno espresso in diversi – un’esperienza del genere permette di “unificare” la vita, di legare ideali e quotidiano, preghiera e carità, lavoro e vita familiare: aspetti che spesso, invece, ci troviamo a vivere in maniera frammentata.Quanto alle difficoltà: penso che si possano risolvere solo a patto di vivere questa esperienza con alle spalle una storia di fede solidae con la chiara consapevolezza, innanzitutto dei genitori ma anche della comunità che accoglie la famiglia (prete in testa), che o questa forma di servizio “fa bene” alla famiglia in questione oppure non ha senso. Al centro dell’esperienza ci deve essere la famiglia in quanto tale, a partire dalla coppia: se così non è, non dura.

Quale messaggio inviano queste realtà familiari alla società e alla Chiesa italiana?

Almeno tre. Il primo: una famiglia che si inserisce stabilmente nel cuore di una comunità cristiana contribuisce a dare un volto diverso, più fraterno, “quotidiano” e accogliente alla parrocchia stessa. Ancora: lo scambio vocazionale tra sacerdote e coppia è qualcosa che arricchisce entrambi e, mi permetto di sottolinearlo, cambia e rende migliori i sacerdoti. I quali, spesso (per loro stessa ammissione), lavorano “come muli”, ma poi finiscono per essere “orsi” dal punto di vista dei rapporti umani. Da ultimo:queste famiglie, con la loro semplice ma intensa vita, documentano come oggi sia più incisiva una fede che sa interpretare la circostanza, spesso imprevedibile, come occasione per testimoniare il Vangelo rispetto agli eventi (più o meno eclatanti) immaginati a tavolino o agli sforzi di programmazione che, troppe volte, sembrano assorbire in modo eccessivo la nostra Chiesa. In sintesi: ci dicono che, come amava ripetere Madeleine Delbrel, più che dirigere noi l’orchestra si tratta di danzare al ritmo (insisto: spesso imprevedibile) dello Spirito, obbedendo docilmente alle sue mosse.