Omotransfobia. Palazzani: “Discutere i problemi di fondo non in modo ideologico ma con razionalità”

Il testo unificato Zan contro la omotransfobia è arrivato in Aula in questi giorni. L’accelerazione è voluta dalla maggioranza per avere un iter più veloce alla ripresa a settembre. Non ci sarà tempo ora per riprendere la discussione prima della chiusura per la pausa estiva. Un progetto di legge che continua a essere fortemente divisivo su cui abbiamo raccolto il parere di Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa.

Il testo unificato continua a dividere. Forse perché è una legge che non serve, non essendoci un vuoto normativo rispetto ai reati di omotransfobia, ed è soprattutto ideologica?

Il nostro ordinamento giuridico riconosce l’uguaglianza di ogni essere umano e la sanzioni per ogni atto di violenza: lo stesso codice penale prevede una maggiore punibilità in presenza di motivazioni del reato che assumano un disvalore particolare (l’aggravante generale dei “motivi abbietti o futili” art. 61 n. 1), riferibile anche a omofobia e transfobia. In questo senso,

la legge è inutile.

Peraltro se l’obiettivo della legge è l’inclusività sociale nei confronti di chi fa scelte che possono non essere condivise, il percorso non è quello intimidatorio, ma semmai quello di una efficace “prevenzione” nei confronti degli atti offensivi, che si può attuare mediante una formazione culturale alla accoglienza. In questo senso, il “sospetto” è che sia una legge “ideologica”, ossia voluta da chi sostiene alcune opinioni precise, che potrebbero non essere chiare a tutti i cittadini.

Qual è l’ambiguità di fondo nella terminologia usata?

Prima fra tutte “fobia”: un termine forse chiaro per la psicologia, ma non certo per il diritto, tantomeno il diritto penale che dovrebbe sempre essere “determinato”. Inoltre, il riferimento a “sesso” che indica la condizione biologica del nascere e “genere” la condizione psico-sociale, come ci percepiamo e come siamo inseriti nella società: riferimenti inutili peraltro perché nulla si scrive nel testo sulla violenza su donne, che ci si potrebbe invece aspettare dal riferimento al “genere”. Ma

soprattutto le ambiguità sono nelle espressioni “orientamento sessuale” e “identità di genere”.

“Orientamento sessuale” indica ogni “direzione del desiderio” (ma la genericità rischia di includere ogni orientamento, incluso pedofilia o incesto?): si dovrebbe scrivere in modo più chiaro “omosessualità” e “bisessualità”, che sono orientamenti sessuali specifici. “Identità di genere” è equivoca: qui “genere” non significa, come nella grammatica italiana, la differenza tra maschile e femminile, ma si riferisce a “identità” psicosociale “scelta”, che può non essere quella “naturale” del nascere, che include la dimensione “transgender”: ma allora perché non scrivere direttamente transgender?

A suo avviso, quali sono i limiti e i maggiori rischi di questa proposta di legge?

Il limite è la incomprensibilità per i cittadini: non tutti capiranno che “dietro” il testo c’è l’introduzione nel diritto e nella nostra società dell’equivalenza di qualsivoglia scelta sessuale, rispetto alla propria “identità” e “orientamento”. Il rischio è il cambio di paradigma dalla “differenza” sessuale (uomo/donna) come valore per la identità e la famiglia all’“indifferenza sessuale”, ossia alla equiparazione delle scelte tra determinatezza sessuale (essere maschio e femmina come “si nasce”) e indeterminatezza sessuale del transgender (essere sia maschio che femmina), tra omo, bi ed etero-sessuale. Peraltro,

se queste sono le categorie “vulnerabili”, perché non inserire nell’elenco anche le persone con disabilità, i minori o le persone anziane?

L’elenco delle persone vulnerabili in ragione delle condizioni fisico-psichico-sociali ed esistenziali è ampio e rischierebbe di dilatare eccessivamente le ragioni di non discriminazione, peraltro già implicite nel principio di uguaglianza.

Perché non piace anche a una parte dell’universo femminista?

Da sempre vi è stata una contrapposizione tra teorici gender e alcuni orientamenti femministi: i primi promuovono la “in-differenza sessuale”, le seconde la “differenza sessuale”. Per alcune femministe la dissoluzione della differenza rappresenta un pericolo per i diritti delle donne, sospettando che la “indifferenza” nasconda forme di misoginia patriarcale e prevaricazione del maschile sul femminile.

È sufficiente per tutelare la libertà educativa aver introdotto all’articolo 3 del testo unificato la precisazione che sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte?

Certamente questa modifica chiarisce un punto che è stato sollevato nel dibattito, facendo una differenza tra la libertà di espressione di idee e atti di violenza. Anche questo è un elemento che andrebbe considerato implicito nel nostro ordinamento giuridico (la libertà di espressione), ma che nelle precedenti stesure del testo introduceva contraddizioni nell’ordinamento.È evidente che chi difende il valore naturale della identità sessuale non come oggetto di scelta e di volontà e la famiglia, oggi chiamata impropriamente “tradizionale”, ma la famiglia come “comunità naturale” (come dice anche la nostra Costituzione, art. 29) non può vedere restringersi la sfera della sua libertà di idee in una società democratica.

Cosa si aspetta dal dibattito in Aula?

Quello che desidererei è che questi problemi di fondo fossero discussi, non in modo ideologico, ma con razionalità.

Andando oltre le contrapposizioni ideologiche e teoriche, cercando di chiarire i concetti, di esplicitare le proprie posizioni senza nascondersi dietro ambiguità. Cercando anche di capire la necessità o meno e guardare oltre, anche alle implicazioni possibili future di questa eventuale normativa introdotta nel nostro ordinamento.