Pace. Tarquinio: “Occorre disarmare anche le parole”

L'ex direttore di Avvenire protagonista con il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia e il vicesindaco di Mercato Saraceno Ignazio Palazzi, di un incontro online organizzato dal Centro Studi Donati. Il suo racconto dei primi mesi al Parlamento europeo: “Non lasciate in pace chi dice di volere la pace"

Si è parlato di pace, lunedì sera, nell’incontro online organizzato da Centro Studi Donati di Ravenna, dalle Acli e da altre associazioni locali. Il dibattito

Per far capire cos’è la guerra sceglie un’immagine che è un pugno allo stomaco, soprattutto per i credenti. “A Natale, mentre noi cantavamo ‘Tu scendi dalle stelle’, a Gaza nello stesso gelo in cui è nato Gesù, c’erano bambini che morivano di freddo”. Tenta di scuotere le coscienze Marco Tarquinio, come il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che nel suo discorso di fine anno, il 31 dicembre, ha invocato la pace con lo stesso riferimento. L’europarlamentare Pd, ex direttore di Avvenire è stato protagonista il 30 dicembre, con il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia e con il vicesindaco di Mercato Saraceno, Ignazio Palazzi dell’incontro online “Pace: la grande speranza del 2025” organizzato dal Centro studi Donati di Ravenna, alle Acli di Ravenna, dal Cif e da altre associazioni locali. A moderare l’incontro, Aldo Preda, presidente del Centro Studi Donati e Walter Raspa, delle Acli regionali.

Tarquinio: “Non esistono uomini della provvidenza”

“Sulla pace io credo che ognuno abbia il suo pezzetto di dovere e potere da fare, anche se viviamo in un mondo in cui si moltiplicano i messaggi che ci fanno sentire impotenti”, dice Tarquinio. Non esistono “uomini della Provvidenza”, secondo l’ex direttore di Avvenire: l’unico da ascoltare è il Papa “che ci ripete spesso quanto c’è da fare qui per la pace qui sulla terra”, e che sembra l’unico ad essere consapevole di quanti conflitti esistano nel mondo oltre a quelli più coperti mediatamente: in Ucraina e in Medio Oriente.

L’Iran e la Siria, ad esempio. “La speranza di quelli che ci governano non è che finisca la guerra – fa notare l’europarlamentare – ma che smettano di arrivare i migranti o che si possano rispedire in patria quelli che sono qui. Quanto più diventare misera la speranza”.

Le guerre dei droni e quelle nei mari

A Gaza muoiono i civili, in Ucraina soprattutto i militari: “Siamo tornati alle guerre del ‘900”. Guerre di droni nei cieli “che separano uomini e Dio”, e nei mari, per le ricchezze che non abbiamo ancora sfruttato e anche nel profondo Nord (“pare che Trump voglia la Groenlandia”) che non abbiamo ancora visto.

Spesi 2444 miliardi di dollari in armi

“Serve una grande speranza di fronte a tutto questo”, dice Tarquinio. Che nasce dalla gente: “il 90 per cento degli italiani è contro la guerra – spiega -. Ma tutto quello che è un antidoto ad essa viene messo da parte perché c’è da fare il ‘grande gioco’ dei grandi. Nel 2023 abbiamo speso 2444 miliardi di dollari in armi, in aumento costante dal 2015. Basterebbe il 15 per cento di questa cifra per raggiungere i principali obiettivi dell’Agenda 2030. “E non lo facciamo”.

“Disarmare le parole”

Serve poi “la pace con Dio”, secondo l’ex direttore di Avvenire: “smettere di invocare le nostre armi contro quelle del cattivo di turno (questo papa Francesco ce lo insegna da tempo) e credere che Dio è capace di fare ciò che non possiamo: una speranza che non possiamo non alimentare”.  Dal canto nostro, poi, occorre “disarmare le parole”, che non significa non dire le cose come stanno: “La pace non può essere nemica della chiarezza, come la forza non può esserlo della mitezza. Ma bisogna crederci, che è possibile”. Servono, conclude Tarquinio, preghiera e meditazione, “perché la pace è uno dei nomi di Dio” ma soprattutto un metodo al centro di un enciclica di papa Francesco e un po’ di tutto il suo pontificato: “quello della fraternità”.

Palazzi: il buio di Leopoli e le nostre luci di Natale

Non esiste una volontà politica sulla pace, dice Ignazio Palazzi, che parla del tema a partire dalla sua esperienza tra le forze di interposizione di Operazione Colomba: “Usiamo persino un linguaggio che viene dal mondo della guerra. Da bambini giochiamo con i carri armati. C’è tantissimo lavoro da fare per costruire una cultura di pace. E invece il mondo ci dice che non possiamo cambiare nulla, solo consumare”. Ognuno può  creare il cambiamento. A partire dalla sua esperienza di vita. Parte dalla sua: “Sono stato due anni fa in questo periodo a Leopoli, una città dove mancava l’elettricità, con un cimitero nel quale vengono sepolti i soldati morti al fronte, in continua espansione. Tornando qui, le nostre luci intermittenti del Natale mi hanno scosso: venivo da un Paese dove la normalità è un’altra. La speranza è fondamentale ma dobbiamo anche credere che possiamo incidere. Altrimenti saremo solo attori passivi di quello che arriverà”.

Manfredonia: un’altra Conferenza di Helsinki a Roma nell’anno del Giubileo della speranza

“Il problema è che stiamo abituando alla guerra – dice nel suo intervento il presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia – con questa politica da tifosi che c’è che è il contrario della politica. Occorre invece sognare insieme la pace e costruirla ogni giorno”. Il riferimento che fa Manfredonia è al cardinal Achille Silvestrini e alla Conferenza di Helsinki dove si riuscì a dialogare a partire da principi condivisi: “Perché non tentare di replicarlo a Roma nell’Anno del Giubileo della speranza?”, è la sua proposta.

L’appello di Tarquinio: “Non lasciate in pace chi dice di voler la pace”

Nelle domande finali ai relatori viene sollevata la questione della “pace giusta” in Ucraina. Cosa dovrebbero fare gli ucraini di fronte a un’invasione come quella della Russia? “La politica non si fa con i pensieri belli – risponde Tarquinio, tra le altre cose – ma servono. È la politica l’antidoto alla guerra e invece ci stanno dicendo che la guerra è il cuore della politica, non è così. I popoli non la vogliono, è questo che non si dice”.

E c’è spazio a anche per un racconto personale dei primi mesi al Parlamento europeo“Non lasciate in pace chi dice di volere la pace. So di essere uno dei 720 parlamentari ma sto lavorando per non avere solo un diritto di tribuna, partecipo a un processo politico. Non pensate sia smarrito. A volte mi sento stanco, anche se il lavoro non ha i ritmi frenetici di quelli di un quotidiano come Avvenire. Ho il senso del limite, ma anche quello di una grande responsabilità. La strada è quella di creare legami”.