Dalla Chiesa
Papa Francesco in Ungheria/8. “È bello ritrovarci insieme a coltivare insieme relazioni di fraternità. Poi andare in ogni periferia”
Questa mattina, davanti a 50 mila fedeli presenti alla Messa a Budapest, in piazza Kossuth Lajos, davanti al Parlamento, ormai a conclusione del viaggio apostolico iniziato due giorni fa, papa Francesco all’omelia ha commentato le parole del Vangelo dedicate alla parabola del Buon pastore, quelle che riassumo il senso della missione di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Il Papa si è trovato di fronte, e ha attraversato sulla papamobile scoperta, una folla di gente festante e composta. Tra i presenti, la presidente Katalin Novak e il premier Viktor Orban.
Nella foto qui sopra, parte dei 50 mila fedeli presenti alla Messa presieduta da papa Francesco in piazza Kossuth Lajos, a Budapest
Bergoglio si sofferma su due azioni del pastore. La prima, quella di chiamare le sue pecore. La seconda, di condurle fuori. “Questo fa un bravo pastore – dice -. Dona la vita per le sue pecore. Così Gesù, come un pastore che va in cerca del suo gregge, è venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore e le ama con infinita tenerezza”.
1. Prima di tutto «chiama le sue pecore» (v. 3). “All’inizio della nostra storia di salvezza – prosegue Bergoglio nell’omelia – non ci siamo noi con i nostri meriti, le nostre capacità, le nostre strutture; all’origine c’è la chiamata di Dio, il suo desiderio di raggiungerci, la sua sollecitudine verso ciascuno di noi, l’abbondanza della sua misericordia che vuole salvarci dal peccato e dalla morte, per donarci la vita in abbondanza e la gioia senza fine. Allora noi, facendo memoria grata, possiamo ricordare il suo amore per noi, per noi che eravamo lontani da Lui”.
E, ancora oggi, aggiunge il Pontefice, “in ogni situazione della vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama. Viene come buon Pastore e ci chiama per nome, per dirci quanto siamo preziosi ai suoi occhi, per curare le nostre ferite e prendere su di sé le nostre debolezze, per raccoglierci in unità nel suo ovile e renderci familiari con il Padre e tra di noi. Fratelli e sorelle, mentre siamo qui questa mattina, sentiamo la gioia di essere popolo santo di Dio: tutti noi nasciamo dalla sua chiamata; è Lui che ci ha convocati e per questo siamo suo popolo, suo gregge, sua Chiesa. Ci ha radunati qui affinché, pur essendo tra noi diversi e appartenendo a comunità differenti, la grandezza del suo amore ci riunisca tutti in un unico abbraccio”.
Così si può sperimentare la bellezza del “trovarci insieme – prosegue Francesco -. I vescovi e i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici; ed è bello condividere questa gioia insieme alle Delegazioni ecumeniche, ai capi della Comunità ebraica, ai rappresentanti delle Istituzioni civili e del Corpo diplomatico. Questa è cattolicità: tutti noi cristiani, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai escludente. E, perciò, siamo tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato, senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole”.
Dopo aver chiamato tutte le pecore, il Pastore «le conduce fuori» (Gv 10,3), nota il Papa. “Prima le ha fatte entrare nell’ovile chiamandole, ora le spinge fuori. Prima veniamo radunati nella famiglia di Dio per essere costituiti suo popolo, poi però siamo inviati nel mondo affinché, con coraggio e senza paura, diventiamo annunciatori della Buona Notizia, testimoni dell’Amore che ci ha rigenerati.
Questo movimento – entrare e uscire – possiamo coglierlo, fa presente Bergoglio nel commento al Vangelo, da “un’altra immagine che Gesù usa: quella della porta. Egli dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (v. 9). Riascoltiamo bene questo: entrerà e uscirà. Da una parte, Gesù è la porta che si è spalancata per farci entrare nella comunione del Padre e sperimentare la sua misericordia; ma, come tutti sanno, una porta aperta serve, oltre che per entrare, anche per uscire dal luogo in cui ci si trova”.
E allora, “dopo averci ricondotti nell’abbraccio di Dio e nell’ovile della Chiesa, Gesù è la porta che ci fa uscire verso il mondo: Egli ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, tutti, nessuno escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo, aggiunge il Papa richiamando il numero 20 dell’esortazione apostolica Evangelii guadium.
Insiste Francesco su un tema a lui molto caro, quello di una Chiesa in uscita. Così prosegue: “Essere “in uscita” significa per ciascuno di noi diventare, come Gesù, una porta aperta. È triste e fa male vedere porte chiuse: le porte chiuse del nostro egoismo verso chi ci cammina accanto ogni giorno; le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudineindifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso chi anela al perdono di Dio. Per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore”.
Non esorta solo gli altri, il Papa, ma dice anche a se stesso: “Ripeto questo soprattutto a me stesso, ai fratelli vescovi e sacerdoti: a noi pastori. Perché il pastore, dice Gesù, non è un brigante o un ladro (cfr Gv 10,8); non approfitta, cioè, del suo ruolo, non opprime il gregge che gli è affidato, non “ruba” lo spazio ai fratelli laici, non esercita un’autorità rigida. Incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: “facilitatori”, e aggiunge fuori testo, “questa è la parola: facilitatori della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita, così come Gesù Cristo, nostro Signore e nostro tutto, ci insegna a braccia aperte dalla cattedra della croce e ci mostra ogni volta sull’altare, Pane vivo spezzato per noi.
Poi si rivolge anche ai laici: “Lo dico anche ai fratelli e alle sorelle laici, ai catechisti, agli operatori pastorali, a chi ha responsabilità politiche e sociali, a coloro che semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana, talvolta con fatica: siate porte aperte”. E ripete a braccio: “Siate porte aperte”. Lasciamo entrare nel cuore il Signore della vita, la sua Parola che consola e guarisce, per poi uscire fuori ed essere noi stessi porte aperte nella società. Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri, per aiutare l’Ungheria a crescere nella fraternità, via della pace”.
La conclusione è dedicata alla tenerezza. “Gesù buon Pastore ci chiama per nome e si prende cura di noi con infinita tenerezza – pennella così le ultime parole dell’omelia -. Egli è la porta e chi entra attraverso di Lui ha la vita eterna: è il nostro futuro, un futuro di «vita in abbondanza» (Gv 10,10). Perciò, non scoraggiamoci mai, non lasciamoci mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei problemi o nell’apatia”, ma tutti risplendano, Ungheria compresa, di “vita nuova”.