Cesena
«Per amore, non per forza»: Tomaso Montanari sui Beni culturali
«Per fare conoscere il patrimonio culturale italiano serve amore, non forza»: Tomaso Montanari al Teatro “Bonci” per l’incontro conclusivo dell’edizione 2023 di “Ciò che ci rende umani”, la rassegna ideata dal Teatro Valdoca di Cesena, ha trattato il tema del patrimonio culturale italiano, la sua valorizzazione, il suo rapporto con le generazioni.
Il protagonista, nato a Firenze nel 1971, rettore dell’Università per stranieri di Siena, è persona ben nota in ambito culturale e politico: storico dell’arte, con numerose pubblicazioni e documentari trasmessi dalla Rai su artisti dell’epoca barocca, negli ultimi anni è stato spesso presente in programmi televisivi di dibattito politico.
L’argomento su cui è intervenuto nella serata di lunedì 6 novembre al “Bonci” ha riguardato una possibile risposta alla domanda: cos’è che ci rende umani? La cultura, il paesaggio, le opere d’arte ereditate dai secoli passati, in una parola, il patrimonio culturale. Montanari ha ricordato l’articolo 9 della Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».
In particolare, lo storico si è soffermato sul secondo comma dell’articolo, in cui si parla di paesaggio e patrimonio storico e artistico della Nazione. È l’unico punto nei dodici principi fondamentali in cui si usa quella parola, Nazione. Dato che la Costituzione viene scritta quando le ferite inferte all’Italia e all’Europa dai nazionalismi sono ancora aperte e sanguinanti, è facile capire la rimostranza ad usare proprio quella parola. Ed è ancora più significativo, ha sostenuto Montanari, che si adoperi quel termine in riferimento a qualcosa (paesaggio, arte, cultura) che non ha legami col sangue, con l’etnia: l’Italia appare una Nazione costruita nei secoli dall’apporto di tanti popoli, dalle mescolanze di sangue, cultura, religione, che hanno prodotto quell’unicità tipica dell’Italia.
Nella conferenza, durata un’ora, introdotta brevemente da Mariangela Gualtieri, Tomaso Montanari ha cercato di identificare cosa sia il patrimonio culturale. Fra gli altri spunti, ha citato Augusto Campana, il grande erudito di Santarcangelo che il giovane Montanari conobbe quando studiava alla Normale di Pisa. Campana si trovava a Santarcangelo durante il passaggio del fronte e, impossibilitato a raggiungere Roma dove lavorava alla Biblioteca Vaticana, andava in bicicletta costantemente a Rimini per osservare i danni dei bombardamenti. Nei suoi diari appunta i danni subiti dal Tempio Malatestiano ma anche la casina medievale di via Gambalunga, anch’essa danneggiata.
Secondo Montanari è proprio in questa compresenza il senso profondo dei beni culturali: il grande monumento, gigantesco per bellezza e importanza nella storia dell’arte, e il piccolo monumento, che però identifica un luogo e la sua storia. Solo conservandoli assieme si fa davvero storia di un luogo. «Non andate a visitare le mostre a pagamento, dice con una provocazione, ma entrate in un vecchio palazzo, in una vecchia chiesa: lì dentro, oltre a non trovare folla, troverete il vero aspetto della storia e della cultura. Se ci fate caso, i monumenti veri, non i quadri “liftati” delle mostre, sono pieni di piccole imperfezioni, contengono al loro interno varie epoche e vari stili, ed è proprio lì la loro maggiore importanza».
Bisogna dare attenzione non solo alle opere che testimoniano la potenza dei vincitori, ma anche il sacrificio dei vinti. Attraverso una famosa poesia di Bertolt Brecht, che si chiedeva se Cesare, conquistatore delle Gallie, avesse fatto tutto da solo, o che fine avessero fatto i muratori che costruirono la Grande muraglia, Montanari ha sottolineato come anche la storia fisica delle opere d’arte sia importante: a Sant’Andrea in Percussina, luogo in cui visse Nicolò Machiavelli e scrisse “Il principe”, circa dieci anni fa è stata ritrovata e restaurata una pala d’altare, opera di Jacopo Ligozzi, pittore veronese, che realizzò la tela nel 1612. L’opera non è straordinaria, ma il cielo che appare dietro ai santi è di un colore oltremare bellissimo, affascinante, che non può che sorprendere lo spettatore. A questo punto però Montanari si chiede da dove venisse quel colore così bello. Era il colore più costoso, perché si otteneva con la frantumazione dei lapislazzuli, pietre preziose che giungevano dall’Afghanistan, dove venivano estratte da miniere poste in alta quota, dove tanti sconosciuti esseri umani faticavano giorno dopo giorno estraendole dalle viscere della terra. La conoscenza di ciò che serviva per creare quell’effetto cromatico è ciò che rende comprensibile quell’opera d’arte a più livelli, da quello esclusivamente estetico a quello sociale e umano.
Al termine della conferenza, interrotta da numerosi applausi, è stato il momento delle domande, che sono state poste da numerose persone. Fra le altre, è stato chiesto al critico cosa ne pensi delle attività dei giovani di “Ultima generazione” che protestano contro l’immobilismo dei governi sul tema dell’ecologia con gesti plateali, come gettare vernice (lavabile) contro monumenti o quadri (protetti da vetri). Il critico li ha lodati, perché, dice, ci ricordano che le opere d’arte non sono feticci, che di per sé hanno un valore: quando gli esseri umani non ci saranno più, le opere d’arte non esisteranno più perché nessuno le guarderà. «I giovani che protestano per l’ambiente ci costringono a riflettere su noi stessi, su quello che lasciamo in eredità dopo di noi, dovremmo solo ringraziarli perché cercano di risvegliare le nostre coscienze».
Così si è conclusa l’edizione 2023 di “Ciò che ci rende umani”, in un Teatro comunale forse non gremito, ma certo pieno d’attenzione per ciò che Montanari ha espresso.