Cesena
Riapre il Teatro “Bonci” di Cesena
Gli spettatori entrano alla spicciolata, dal fondo aperto del “Bonci”. Le “mascherine” controllano che gli spettatori indossino le mascherine vere, accompagnano le varie persone alla loro sedia numerata, ben divisa da quella del vicino, e da sotto le maschere, di carta, di stoffa, bianche, colorate, gli occhi scrutano i vicini e i lontani. Qualcuno riconosce qualcun altro, ci sono goffi saluti, c’è chi si alza e s’avvicina, ma a debita distanza, da chi non vedeva da settimane o mesi. Per tutti, il piacere e la curiosità di ritrovarsi ancora a teatro, anche se da una prospettiva rovesciata.
Gli spettatori sono sul palcoscenico, e guardano verso la platea: non sono molti, poche decine, numeri estremamente esigui rispetto ai tempi d’oro del teatro, ma dopo quattro mesi di chiusura, è già strano, e nello stesso tempo bello, ritrovarsi in quello spazio, osservare il retro del palcoscenico, ammirare la sua grande struttura, che sembra quella di una nave: il cordame, che serve per sollevare e abbassare i fondali, le grandi vele, la struttura in legno che s’inerpica su fino in cima, il “Bonci” sembra proprio un veliero pronto a salpare.
La ripartenza
La prima riapertura ha avuto luogo lunedì 15, alle 21, non dal vivo ma in diretta su Rai Radio3, il canale radiofonico che in questi mesi ha cercato di mantenere vivo il rapporto col mondo del teatro, con Lino Guanciale, popolare attore teatrale e televisivo, interprete dei “Dialoghi di profughi” di Bertolt Brecht con arrangiamenti e musiche dal vivo di Renata Lackó.
Si tratta di un testo del 1940, col quale Brecht afferma il teatro come strumento di rigenerazione, come spazio di mutamento e maturazione attraverso l’incontro, ciò di cui c’è bisogno anche oggi, in un clima di rinascita collettiva.
Claudio Longhi e il teatro pubblico
Martedì 16, invece, gli incontri sono stati dal vivo: dapprima il direttore Claudio Longhi ha incontrato le città che fanno parte di Ert, Modena (alle 10), Vignola (11,30), Castelfranco Emilia (15), Bologna (16,30) e infine Cesena (18,30), per riflettere sul ruolo “pubblico” del teatro.
Sul palcoscenico cesenate, giunto in leggero ritardo, Claudio Longhi ha sviluppato un ragionamento partendo dall’esperienza di un antropologo, lo scozzese William Turner, che notò come le società tribali, giunte a un momento di crisi, si devono interrogare su se stesse, e se non riescono a venire a patti con ciò che la novità comporta sono condannate alla rovina.
«In pratica, ha sottolineato Longhi, quello che Turner ha descritto non è altro che il teatro, la drammaturgia: c’è un elemento di crisi, che può essere risolto positivamente, ed ecco la commedia, o negativamente, ed ecco la tragedia».
Di più: il teatro, e in generale la cultura, sono “utili”. L’uso delle virgolette può sembrare eccessivo, ma serve a fare capire che c’è un’utilità pubblica nell’uso del teatro, ed ecco perché, nel secondo dopoguerra, Paolo Grassi e Giorgio Strehler hanno dato vita al teatro pubblico, cioè al teatro in cui è lo stesso Stato a intervenire, perché lo Stato (in ultima analisi, la comunità democratica) riconosce l’importanza per i suoi cittadini di ciò che si dice e si fa sulle assi del palcoscenico.
La riflessione di Claudio Longhi ha poi evidenziato come l’epidemia abbia costretto tutti a fare i conti con una dura realtà: qualcosa di minuscolo è stato così potente da mandare in crisi le società del mondo intero.
«Abbiamo detto, negli ultimi anni, che così non si poteva andare avanti, che stavamo andando incontro a una crisi, e la crisi, senza avvisare, è arrivata. Adesso dobbiamo decidere cosa fare, dopo la crisi».
Lo sprone del direttore di Ert riguardava la necessità di non dare per scontato il mondo del teatro e della cultura, perché s’è visto come in questi mesi artisti e maestranze siano rimasti immobili, quasi pietrificati: anche in questo campo ci sarà bisogno di ripensare profondamente il mestiere.
Il recital
Alle 21, in tutte e cinque le sedi, in contemporanea, “Che cosa può il teatro?”, un reading con accompagnamento di musica dal vivo, con le testimonianze di Bertolt Brecht, Jacques Copeau, Ennio Flaiano, Paolo Grassi, Julian Beck e Judith Malina, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor, Ariane Mnouchkine, Pina Bausch, Angelo Maria Ripellino, Adelaide Ristori, Thierry Salmon, Wisława Szymborska, Karl Valentin e Robert Walser.
Sul palco del “Bonci”, dopo i saluti di Franco Pollini, direttore del teatro, e dell’assessore alla cultura Carlo Verona, si sono esibiti Simone Francia e Maria Vittoria Scarlattei, al violino Daniele Iannaccone.
Uno spettacolo gradevole, cui forse avrebbero giovato un po’ di tagli per la durata, alcune volte eccessiva, dei testi: nell’insieme armonizzato abbastanza bene, con numerosi spunti di riflessione.
Gli applausi sono risuonati nella vastità del “Bonci”, quasi a esorcizzare il lungo silenzio dei mesi scorsi. La speranza è che, quando tornerà la stagione teatrale, quegli applausi possano risuonare ancora, come la necessità di una comunità che si ritrova.
Lo diceva Ezio Raimondi quando parlò in teatro dopo i restauri degli anni Novanta: «al cinema ci sono tanti “io”; solo a teatro c’è un grande “noi”: per questo il teatro, come migliaia di anni fa, rappresenta una parte così importante della comunità».